Lo so, questa Weekly arriva quando è già uscita tutta una settimana di nuova musica. Ma venerdì scorso (17 maggio) è stata una giornata troppo densa di uscite, forse una delle migliori - quindi peggiori per la mia sanità mentale - dall’inizio dell’anno. Perciò, “come ai vecchi tempi” (cioè l’anno scorso) esco tardi e con troppe parole. Tu fai finta di niente, ascolta la musica nuova-vecchia (su Spotify o su Apple Music) e ci rileggiamo presto. Molto presto.
Shellac, To All Trains
Sperare di recensire in modo oggettivo quel che sarà per sempre l’ultimo album di Steve Albini, Todd Trainer e Bob Weston è un’illusione temeraria. Posso dirti soltanto che To All Trains degli Shellac testimonia che quando si aspetta a far uscire un disco in attesa di un repertorio di canzoni che stiano in piedi da sole, i risultati sono evidenti. Puoi preferirgli qualsiasi altro disco loro, ma non puoi negare che queste tracce (come tutte le precedenti) siano a tenuta stagna. Cosa puoi dire che già non sai? Ci sono i soliti arpeggi ad angolo acuto; i soliti riff di basso con gli stivali pesanti (Girl From Outside); il solito rullante affilato (WSOD); i soliti testi che sono allo stesso tempo puntuali e bisognosi di una contestualizzazione (Scrappers spiegato qui da Steve; Tattoos resta un po’ misteriosa); i soliti momenti esilaranti che spezzano una narrazione bestiale del tempo che passa (“And I hope that that’s correct, the way I used pulchritudinous”); la solita voglia di ribaltare il sistema nel lavoro (Scabby the Rat) e nella musica (“I’m through with music from dudes. What you do isn’t brave”: Chick New Wave). Il valore aggiunto era sentire tutto questo sulla tua faccia, dal vivo, e questa cosa non sarà più possibile. L’ultima traccia - l’hanno notato tutti - parla di morte: I Don’t Fear Hell è l’estrema ammissione di una persona che sapeva di essere imperfetta e l’ennesima dimostrazione di un senso dello humor nero fuori scala. Ok, ma ancora di più a me sembra che catturi l’ethos di fondo di Albini: la musica non è tutto. Che senso ha redimersi dai propri peccati con una canzone? Bisogna farlo nella vita reale, bisogna cambiare le cose nel mondo. Le canzoni sono pazzesche, fantastiche, geniali. Ma sono un mucchio di parole senza senso in attesa della fine, “Something something something when this is over”. Bellissime eh, fanno anche la rima con “lover”. Che è come dire che piuttosto che cercare progresso nella musica, trovalo nel tuo ufficio o al bar.
Beth Gibbons, Lives Outgrown
I Portishead sono una di quelle rare band in cui l’hype non è mai stato speso a caso e i cui fan di norma non sono delle red flag ambulanti. Tra le cose che fanno funzionare questo mito c’è anche il fatto che, a differenza di altri colleghi, non si sono mai sputtanati troppo. Il che ha un lato negativo: non c’è così tanta musica loro in giro. Beth Gibbons ha pubblicato due album in 22 anni: uno folk con Rustin Man (Paul Webb dei Talk Talk), uno di classica contemporanea su una composizione di Henryk Górecki. Insomma, Lives Outgrown in qualche strana maniera è il suo primo lavoro solista. Ed è un disco bello, ma non travolgente. L’ho trovato molto sottile, meditato: tipo quando (nerd alert!) in Lost Changes cambia tempo da 4/4 a 6/8 tra la strofa e il ritornello, dove dice “time changes”; o quando in Oceans sembra citare Threads dei Portishead; o quando ti illude di citare Cher in una canzone che effettivamente parla di crescita e morte (Burden of Life). Il problema potrebbe stare proprio qui. A tratti resti abbacinato dalla grazia e ti perdi il motivo di fondo: il passare del tempo. Non che l’hype sia stato speso a caso, manco stavolta, però calibra le aspettative.
Lip Critic, Hex Dealer
Pur venendo da NY, i Lip Critic in questo eccellente debutto offrono un ritratto di quell’America “profonda” che si fida dei santoni. Lo dicono con due batterie, due sequencer e una serie di urla e strepiti che allo stesso tempo mettono in scena e dipingono l’assurdità degli imbonitori ma anche l’umanità perversa dei creduloni. Detto così potrebbe sembrare un album molto serio, invece è teatrale, assurdo e tocca gli abissi dello spirito anche di chi non si considera religioso. Inizia con un pezzone, che è sempre un buon segno (It’s The Magic), dove con la delicatezza dei Death Grips e una discreta comprensione della psiche si fanno un giro nelle insicurezze di chi arriva a fidarsi del pensiero magico. Lo spregevole e il ridicolo: cfr. il videogioco squadrettato ridicolo e cruento che hanno dedicato al miglior brano, Milky Max. Insomma, non pigliarti male. Stiamo su questo pianeta assolutamente privo di miracoli per un tempo talmente breve che non vale la pena provare una naturale meraviglia verso l’idiozia. Piuttosto, vai a sentirli in apertura alla data dei Militarie Gun al Magnolia di Segrate il 21 agosto.
Billie Eilish, Hit Me Hard And Soft
Cosa ci dice di questo terzo album il fatto che sia stato pubblicato anche in versione solo vocale? Che l’unica cosa a non deludere mai è la voce pazzesca di Billie Eilish. Io in lei ho sempre creduto, ho le prove. La sua musica riusciva a essere magicamente dentro l’attualità, eppure fuori dalle regole (di metrica, armonia, melodia); a vincere due Oscar con pezzi abbastanza convenzionali e farlo sembrare un momento importante. E poi, la sua voce è qualcosa di eccezionale: sei ci fai caso, la usa da vera crooner, usando il microfono come strumento per far sembrare gigantesco un sospiro. Una roba antica e moderna insieme, come il pastiche tutto losangelino di generi, ma abbastanza universale da farsi capire ovunque, attivato da un carisma irresistibile tra lo slacker apatico e lo spiritello malvagio. Il primo album è stato un mezzo miracolo, insomma. E poi? Happier Than Ever era un disco di passaggio, ma verso dove? Hit Me Hard and Soft non è certo la destinazione, anche perché ripete certi errori di HTE: canzoni che vogliono essere grandi pop ballad ma sono appesantite dai cliché e non hanno uno sviluppo degno, quello che ti fa partire all’asciutto e ti fa finire sotto cascate strumentali; beat switch acustico-elettronici con cambi di ritmica e mood (The Diner, L’Amour de Ma Vie) che hanno un’ingenuità amatoriale che sarebbe molto più attraente se non suonasse tutto così preciso (per 30 secondi Bittersuite sembra cappottare su sé stessa, e invece niente). Che poi, il concept sarebbe proprio questo: canzoni bipartite, due anime, cose così. Ma un conto è abbracciare il dualismo, un altro è essere confusi. Ci sono un paio di pezzi molto buoni: Skinny è viscerale e mesta; Lunch è divertente; Blue trova quell’equilibrio giusto tra armonioso e abnormale, quel classico-non-classico alla Billie - fai caso alle dissonanze nelle armonie vocali, agli effetti sfarfallanti, alla cupezza dei bassi. E poi Birds Of A Feather gira bene, ma perché ha lo stesso giro di Last Christmas e un inciso strumentale (dun dun dàn dun dun dàn) che viene da qualche altra parte che non ricordo - insomma, sembra un po’ assemblata furbescamente. La direzione non c’è. E si capisce, eh: Billie è pur sempre giovanissima. Io dico di aspettare un altro giro.
Cos’altro è uscito
C’è qualcosa di così immediatamente viscerale nell’ascolto di un disco come Head Void di From Indian Lakes. Devono essere i chitarroni che vanno in risonanza, gli armonici naturali che tintinnano mentre sotto un basso cerca di tenere la barra dritta, come quando tiri su la testa di botto in piena sonnolenza (ho parlato un po’ di come lo shoegaze produca queste sensazioni nella recensione di Cartwheel degli Hotline TNT anche se credo che Joey Vannucchi, FIL, non usi accordature aperte). Ma questo non è un disco di effetti, è un disco di canzoni: aspre, spesso euforiche, inondate di eco ma melodiche. Un’esperienza non solo sonica.
#Richaxxxhaitian di Mach-Hommy credo sia il mio disco rap preferito dell’anno, finora. Beat astratti che suonano come Il pasto nudo di Cronenberg, campioni soul e jazz stinti, provenienti da strambi sogni dove rimbombano nenie infantili (Sur le pont d’Avignon; Besame Mucho in Gorgon Zoe Lan). Il disco è personale, politico e storico, orgoglioso di una cultura (haitiana, anticolonialista) prima che di una provenienza, e per questo universale. Ha gli ospiti giusti (Black Thought, Your Old Droog) e i produttori giusti (Conductor Williams, Kaytranada, Quelle Chris, anche l’eccelsa Georgia Anne Muldrow) che ti portano a spasso in luoghi che non esistono ma sembrano verosimili. Una doccia fredda, in senso buono.
Please Don’t Cry di Rapsody è gigantesco, in tutti i sensi (22 tracce), e anch’esso finisce in alto tra i dischi rap del 2024. Ha la franchezza del diario e la perizia del magnum opus, parla delle donne nell’hip-hop ma anche di disparità sociali, senza perdere occasione per farci godere. Marlanna si circonda di baduismi (Look What You’ve Done che interpola brevemente You Got Me) e di Erykah Badu in persona. A proposito di interpolazione, gli scarsoni vadano a studiare come si rifà Bob Marley nel chorus di He Shot Me. Un lavoro denso, ma con tanti spazi aperti per dondolare sinuosi e lasciarsi stupire: tipo da un giro d’accordi gassoso (Stand Tall) che da lontano sembra un pezzo dei Pink Floyd.
Dire che non prestavo attenzione ad Ani DiFranco da qualche anno è un eufemismo. Quando ho saputo che il nuovo album, Unprecedented Sh!t, sarebbe stato prodotto da BJ Burton, cioè uno dei responsabili di uno dei dischi migliori degli ultimi 10 anni (Double Negative dei Low), ho detto: andiamo. E in effetti suona strano, cioè fighissimo: come una macchina che prende coscienza. Una macchina agricola. Ani canta di patriarcato interiorizzato, diritti riproduttivi, pandemia e cambiamento climatico e la produzione quasi non osa spezzare la voce nel suo disegno sonoro cubista. Ma quando capita (You Forgot To Speak; The Knowing) ne viene fuori un suono industriale fenomenale, che talvolta viene ulteriormente ribadito da strumentali che non sembrano più folk rock (Virus, molto bella). La title-track ècforse l’esperimento più compiuto di questo trapianto sonoro, quindi - sarà banale - la trovi in playlist. Complimenti a un’artista che non aveva bisogno di cambiare, ma ne aveva voglia.
Un disco che ho ascoltato con estremo piacere è AMAMA dei Crumb, gruppo newyorkese che possiamo inserire dentro il grande calderone di groove rock lisergico parecchio nu-jazz e groovy (Genie), ma sufficientemente ipnagogico da non farsi condizionare fino in fondo dall’aspetto militaresco del funk. Loro li consiglio da quando esiste questo posto (Dust Bunny e The Bug li trovi nelle playlist Cestone se frughi bene). Non si inventano nulla, se non i suoni delle tastiere e dei sample, che sono sufficientemente familiari da farti aprire la porta, e sufficientemente weird da catapultarti fuori dalla finestra: tipo in Side By Side che fluttua tra un club, un salotto, un comodino senza pace. Viaggione.
Un’ultima segnalazione: l’EP P.O.P. di Marina Satti, la concorrente di Eurovision Song Contest per la Grecia in questo complicato anno (io non l’ho visto, per questo non ne ho parlato). Il modo semplice per descriverlo è “Rosalía sull’isola di Creta”, perché c’è il techno-folk grezzo e glitterato, con gli strumenti tradizionali e i beat grassi come Efesto. Tra il camp di Lalala e il finale senza beat ma con molta elettronica, c’è anche tempo per una sorta di suite di 10 minuti che contiene almeno tre pezzi diversi, tutti tamarrissimi. Non ti ho convinto? Almeno senti qua sotto la sua cover di Crystalline di Björk nella versione remix di Omar Souleyman, registrata qualche anno fa. Per capire che certi percorsi non sono solo strategie commerciali, ma voglia di fare una cosa strana e che spacca.
🥼 Atavista di Childish Gambino [rap-soul in barba e seta; paranoia e gioia; già sentito]1
🥚 Eggsistentialism dei Lovely Eggs [psych punk; microcosmico; cori, urla, robot, Gaia]
🥱 Permanent Pleasure dei Joywave [indie rock; synth, orchestra; rari ritornelli]
🐴 Something Is Happening dei GUPPY [garage pop; psy-chanson; jangle dream; simpa]
💊 Neon Pill dei Cage The Elephant [retro psych-garage-soul; nervi a pezzi; pezzulli]
🤠 Room Under The Stairs di ZAYN [country pop-soul; no pentimento, no sentimento]
😌 Double Your Relaxation dei So Totally [shoegaze revival; rabbia e dreampop; vibe™]
🤵♀️ Lady On The Cusp degli of Montreal [psych-pop; space disco; sesso e nevrosi]
🦇 A Tyrant Crying In Private di Thomas Powers [trip-hop neoclassico; sospiri e violini]
🐉 Actually, the quiet is nice (EP) dei Draag [shoegaze; elettronica; millefoglie dark]
🫨 Mid Spiral: Chaos (EP) dei BADBADNOTGOOD [jazz psych funk; sciallo; bassone]
🍞 Way To Be di youbet [garage pop; indie rock coi synth; trauma, ennui, confusione]
Italo dischi
“Giovani stanchi e vestiti a lutto”, a un certo punto lo siamo stati tutti. Tutti i colori del buio, il primo album di Sethu, prova a restituire questa sensazione di frattura non solo con le parole, ma anche con un caos di stimoli di un produzione (del fratello Jiz) che è una cornucopia massimalista - talvolta fin troppo. Ci sono pezzi alla Finneas (Troppo stanchi) e il breakbeat de La noia che fanno spazio all’ormai immancabile citazione pop-punk, che però qui (Ossa rotte) si esprime in una maniera alla Weezer che non ho sentito in giro. Come disco, è imperfetto. Come base di lancio, è interessante, e lo sarebbe ancora di più se Sethu osasse fino in fondo e abbracciasse davvero il caos.
Sul secondo lavoro del supergruppo alt rock afrobeat noise italiano I Hate My Village, Nevermind The Tempo, devo dire due cose: primo, che giustapponendo toni solari e ombrosi, scialli e incazzosi, inondando il tutto di riverbero, distorsione, eco e cercando (con successo) di mantenere sempre il filo del discorso in ogni brano è la migliore rappresentazione attuale dello stato di assurdità nella quale viviamo in questo Paese e in generale nel mondo; secondo, che questa gente suona benissimo insieme, il disco ha dei pezzi dove sembrano tutti allineati, il che è un bel promemoria di cosa significhi far suonare a degli esseri umani, dove le cose funzionano e sono al loro posto anche senza che una macchina quantizzi tutto, e come si può mixare bene anche una musica caotica.
Miss Italia di Jack Savoretti è un bel progetto: “uno che canta in inglese, ma sogna in italiano” questa volta prova a cantare in italiano, e gli riesce. Non credo di essere il suo pubblico, nel senso che le Canzoni romantiche (bel duetto con Carla Morrison, peraltro) raramente fanno per me, specie nella categoria con grosse dinamiche (piano-FORTE) su cui Savoretti è bravo perché ha un bel registro caldo e graffia bene. Detto ciò, Splendida è un tiramisù di pezzo: se proprio non hai tempo, senti almeno questo.
Guagliona di Vale LP è un bell’esordio perché le canzoni sono mature: intendo dire che sviluppano i pensieri (e gli elementi musicali), anziché pretendere di farsi capire nel mezzo di una serie disordinata di flash e hook. Questo vuol dire che a volte ci sono aperture e ritornelli un po’ naif? Sticazzi, se sono scritti così: le melodie girano benissimo (Amici nemici); Vale canta con una voce “sua” che non assomiglia ai birignao in giro; il suo stile ha qualcosa di Pino Daniele e Kanye, di rap e funk, senza coordinate troppo costrittive; in tracklist ci sono un paio di onesti banger tra cui il già consigliato Fortuna. Le produzioni (Cali Low) talvolta vanno in automatico (Stronza), ma in genere suonano molto bene, lasciano alla voce il suo spazio reale senza plastificarla, e hanno alcune idee geniali, tipo quando Cose che non dico a nessuno si regge interamente sul basso. La intervistai anni fa, e la sua musica mi sembrò un’interessante ipotesi; ora non direi che sia già una promessa o una realtà, ma una possibilità da non ignorare di sicuro.
Il Pogo Mixtape Vol. 1 dei Finley è il giusto giro di stadio di un progetto che si prende un po’ di quel che è suo, ora che il pop-punk è tornato di moda. Mentre stai cercando di ricordare i successi di 18 anni fa, attento al volume perché è un disco rumorosissimo, probabilmente compresso allo sfinimento. Tutto giusto: non puoi ascoltarlo casualmente, devi dedicartici, riservare l’energia auricolare. E qualche volta (Bud Spencer con i FASK; Elettroshock con Sethu) ne vale la pena.
Infine, due parole su Dumba di Assurdité: di lei ti ho consigliato cinque singoli in meno di un anno, e ora che esce il primo LP non me la dimentico certo. Il suo pop elettronico mi attira perché nella sua ricerca di melodia molto intelligente non tralascia il bisogno di togliere qualche stampella all’impalcatura per far cadere le cose, per essere un po’ maleducata e non consolatoria. Le produzioni di Bravo, Bravissimo funzionano quasi sempre perché corrispondono a quest’estetica: spigolosa in Finto cielo (questa è di See Maw); traballante e paranoica in Voglio e Spiritosa. Un disco con tante idee, meno male.
🌴 Flip Haus (EP) dei Plastic Palms [garage lo-fi sciallo; VU&TV; ricordi, viaggi, trip]
🎩 Pipya and the Gangband Vol. I di PIPYA [jazz elettronica; synth wave; funk psicosi]
🗼 Apriti grattacielo (EP) di IAKO [alt-dance-pop; drummini e bassoni; note fantasma]
🌪️ s/t di Alessandro “Asso” Stefana [ambient Americana; chiedi alla polvere]
👿 Hidden degli Ufomammut [sludge stoner doom; viaggi pesanti; rumore del vuoto]
✊ Exagerat3 delle Fucksia [electro punk; riot queer; di lotta e di club; magenta]
🦄 La vita non uccide di Lil Jolie [pop a modo; clubbing Cosmico; disco-indie]
🐳 Non c’è mare di Nico Arezzo [street pop; indie funk; calembour e sciallo-groove]
E visto che avevo poca roba da ascoltare, ho sentito anche un disco uscito il 10 maggio: Tabula di Clio M, pop elettronico perturbante alla Björk, soul astratto alla FKA twigs, con archi e voci annichilenti alla Caroline Shaw: un disco cerebrale che tuttavia mira alla bocca dello stomaco.
I singoli non hanno senso
Come puoi intuire, il tempo stringe. Quindi metto qui il video del singolo migliore della settimana (forse una delle canzoni top10 dei due artisti che la firmano) e poi andiamo alla fine.
Se poi ti avanza qualche minuto da dedicare a queste canzoni così antiche, ti suggerisco di annotare questi nominativi: Crack Cloud; Loma; Ouri; Porta D’Oro; Lido Pimienta; Brucherò nei Pascoli con Crookers; Cassandra Jenkins; Clode; Generic Animal; Peter Cat Recording Co. E questi signori qua sotto, gli SML, una nuova band jazz (Anna Butterss al basso, Jeremiah Chiu ai synth, Josh Johnson al sassofono, Booker Stardrum alle percussioni, Gregory Uhlmann alla chitarra) il cui primo album uscirà il 28 giugno.
Qualcosa da leggere
Questa settimana su DLSO ho scritto di cosa fanno i produttori e ho elencato e descritto alcuni produttori italiani “giovani” (più di me, comunque, maledettə) che stanno facendo un gran lavoro. E poi, qua sotto, ti consiglio un post di Substack parecchio interessante su come potrebbe cambiare il giornalismo musicale e lo streaming se le due cose fossero meglio integrate: lo dico spesso, la musica è ovunque, è l’arte più importante e ubiqua che esista, e il fatto che le sue economie (interna o dell’indotto) siano traballanti mi fa imbestialire.
Qualcosa da vedere
Squirrel Flower, del cui album dell’anno scorso non ho parlato (ahimé), ma di cui ti consigliai il bellissimo pezzo First Job (lo trovi nel Cestone del 2023), ha suonato con un po’ di amici di altre band a una serata organizzata da Stereogum. Piuttosto che ascoltare Anthony Blinken che suona Rockin’ In The Free World di Neil Young, chiaramente fraintendendola, sentiti questa versione di Cortez The Killer nel pieno del suo messaggio anticoloniale.
A parte questa sorta di reissue, Donald Glovet pubblicherà entro la fine dell’anno un nuovo album - l’ultimo come Childish Gambino, dice lui - che farà da colonna sonora al suo film Bando Storm and the New World, e poi ci sarà il film di Community, e il tour mondiale che per una santa volta passa dall’Italia (2 novembre, Unipol Forum, Milano), quindi ci aspetta una seconda metà dell’anno molto Gambina, tieniti prontə