Recensioni perdute: quattro dischi belli
ScHoolboy Q - Faye Webster - Mannequin Pussy - Yard Act
Questa settimana recuperiamo qualche parola perduta che mi ero appuntato per quattro dischi usciti a inizio marzo.
ScHoolboy Q, Blue Lips
Probabilmente il primo grande album rap di alto profilo dell’anno, anche se non massimalista e assurdo e futurista come 2093 di Yeat, ma altrettanto oscuro: il mondo è un posto infame, ci trasforma in consumatori e prodotti allo stesso tempo, sospettosi degli altri, paranoici, e questo preoccupa anche chi sta in cima. Ma se all’ansia di Drake non credo nemmeno per un momento, ScHoolboy Q mi ha convinto, e se proprio non vuoi stare a spulciare i testi, lo capisci dal suono. In oHio, con l’eccellente Freddie Gibbs, l’808 suona come un verme delle sabbie che bussa alla tua porta, finché il beat switch ci catapulta in un noir degli anni ‘70. Non è il solo pezzo “a suite”: a tratti il disco sembra fare i conti con l’incrocio tra rap e prog psichedelico che abbiamo esperito all’inizio dell’anno scorso con l’album “rock” di Lil Yachty - fai caso ai synth di First, decadenti ma spaziali.
I tanti inserti di pianoforte (siamo nell’era pianistica di TDE?) contribuiscono al languore vagamente horror e fatalista di tanti momenti - vedi il theremin di Foux con Ab-soul, altro pezzone; i sample chipmunk soul che popolano la seconda metà del disco, come un villaggio dei dannati; la moltiplicazione spettrale del lick (tipo l’archetipo del meme melodico jazz) in Nunu; l’accompagnamento jazz stropicciato di Blueslides, che è un po’ il perno morale del disco, con le sue considerazioni sulla salute mentale (e un infelice riferimento a Kanye). E quest’atmosfera è appropriata: le “labbra blu” sono quelle di chi sta trattenendo il respiro, e questo disco fotografa dall’alto un mondo a corto di ossigeno, forse già morto, sicuramente infestato di spettri che preferiremmo tenere in uno sgabuzzino.
Faye Webster, Underdressed At The Symphony
Come fare pop cantautorale sul solco di grandi autori rock e country senza buttarla sul nostalgico? Concentrandoti sulle texture dei timbri: Faye Webster si filtra spesso la voce con un vocoder e con la sua ottima band, il produttore Drew Vanderberg e l’arrangiatrice Annie Leeth crea un impasto di suoni che non appena ti sembra rétro tira fuori l’anacronismo. Come i synth e il tono di chitarra fuzz di He Loves Me Yeah!: devi giudicarla con più attenzione. Eppure, se ascolti la title-track o l’ottima opener Thinking About You senti un richiamo lontano. Cos’è? Sono melodie e cadenze classiche, che ci fa piacere sentire da secoli: Faye ci sta dicendo che se proprio dobbiamo guardare indietro, tipo quando consideriamo una relazione finita, vale la pena farlo per portarsi dietro qualcosa di più che “l’atmosfera”, il comfort.
Quella nostalgia deve avere una ragione più profonda, che alla fine rivelerà più del nostro presente che non del passato stesso: non sarà un tentativo di ritorno, ma di fare i conti con la sua impossibilità. Vale per il suono, vale per il messaggio: e allora puoi lasciar girare questo disco per gustarti qualche lacrima, o puoi prenderlo più sul serio. But Not Kiss, consigliata l’anno scorso, resta di gran lungo la traccia migliore, ma ascoltalo tutto.
Mannequin Pussy, I Got Heaven
Se contieni moltitudini tali da farti passare dal sospiro sofferto al grido rabbioso nell’arco non dico dello stesso pezzo ma di un ritornello, come capita in Loud Bark, o di una strofa come nell’ottima Softly, fai già parte di un empireo musicale. Questo a prescindere dall’attualità della tua musica, o dalla riuscita di questo giro o quell’inciso. E se l’indie rock punkettino dei Mannequin Pussy non è certo l’offerta più nuova della scena globale, il materiale cantabile, commovente, soverchiante in questo album è più che sufficiente per farti vagare in questa densa stanza di pensieri sexy, trasognati, incazzati, feriti, decisi: magari ci sei già passato, è la sensazione pericolosa di onnipotenza che ti dà a volte l’innamoramento.
Può darsi che parte del merito sia anche di John Congleton, che negli ultimi due decenni ha prodotto una quantità impressionante di roba potente eppure stratificata - Actor, Strange Mercy e St. Vincent di St. Vincent; grae di Moses Sumney, Remind Me Tomorrow di Sharon Van Etten, etc. E infatti certi momenti assurdi si notano nei dettagli: la rifrazione della voce nell’ultimo acuto di Sometimes. Un disco che pur infilandosi in un solco (Pixies, Sonic Youth) ci arriva per dire qualcosa. E non a caso nel Cestone dell’anno scorso e in quello attuale ci sono finiti dentro tutti e quattro i singoli.
Yard Act, Where's My Utopia?
Se vuoi sentire il suono dei progetti della generazione millennial che si infrangono in mille pezzi, eccolo qua: il post-brexit-punk che si appropria del pop (molto Gorillaz) degli ultimi due decenni per disegnare l’affresco di un disastro. Forse viene detto in modo troppo esplicito (We Make Hits) ma apparentemente al giorno d’oggi bisogna fare come in quel meme dei Simpson “don’t make me tap the sign”.
Il discorso sul post-punk di questa generazione è già arrivato allo stadio “basta, grazie”, e lo capisco: tutto ciò che viene impacchettato per comodità come trend dopo un po’ comincia a stancare, e i tentativi disperati dei protagonisti di dire “no ma guardate che mi ispirano anche questi artisti e questi altri gruppi” finiscono spesso solo per accumularsi negli angoli meno letti delle recensioni, già poco lette di loro. Per questo, cerco sempre di storicizzare ma anche cercare un valore intrinseco di quello che ascolto. E in questo caso, un pezzo di letteratura memorialistica come Blackpool Lights mi basta per dare il mio assenso.