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Steve Albini era uno di noi

Un video e alcune parole per Steve, dal maggio 2011 al maggio 2024
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Ho registrato queste frasi di Steve Albini durante un’intervista del 22 maggio 2011 a Radio Popolare. Avevo rotto le scatole a Niccolò, che alla fine mi aveva fatto entrare e assistere.

Non ricordo bene di cosa parlammo, alla fine della registrazione: sicuramente del concerto che avrebbe suonato poche ore dopo al Bloom, forse anche del fatto che volevo fare il giornalista musicale. Ricordo che parlammo di Blogspot, dove io avevo il nostro blogghino collettivo musicanoiosa e lui un sito di ricette con il nome di uno chef che poi finì nei casini per molestie (forse lo chiuse prima del caso, comunque ora non c’è più). Capito? Ho davanti un maestro, una leggenda e parliamo di una piattaforme di hosting (chissà con chi parlerò di Substack, un giorno?).

In questo passaggio immortalato da un telefono poco smart Steve parlava del collasso dell’industria musicale, che mi sa non è ancora finito. (Il tono apocalittico è forse una delle ragioni per cui, con oltre 23mila views, questo video che pubblicai su YouTube pochi giorni dopo è tuttora uno dei miei più grandi successi da creator…).

Steve parlava di mercato e industria con quel suo sentenziare tranchant che poteva passare per stronzo, catastrofista e moralista, e invece era mosso da un enorme amore per la musica, e soprattutto per chi la fa. Dannandosi per provare a camparci, da cui la scelta di farsi pagare il giusto, poco, per le sessioni di registrazione di band che non avevano uno spicciolo.

Della sua bontà profonda mi convinsi completamente quando lessi questa storia a proposito delle attività di volontariato che faceva con la moglie, ogni Natale. È una delle cose più sinceramente commoventi che abbia mai letto, vai a leggerla. Ti aspetto qui.

Sono arrivato tardi per i Big Black, ma gli Shellac sono stati una delle mie band del cuore. Come tanti di quelli che sono stati al Primavera Sound un po’ di volte, anch’io ho sviluppato un attaccamento familiare (para sociale, si dovrebbe dire) con gli Shellac, eternamente in cartellone, tanto da diventare una gag. Che non era una gag: il Primavera è il miglior festival, non solo per chi ci suona, ma in generale per la gente che ci va (o ci andava, a seconda di chi teo racconta). Era la sua scena, e noi eravamo i suoi pari. Chi sviluppa attaccamento per una rockstar può pensare di empatizzare con questa persona, ma solo Steve Albini mi ha fatto sentire uno come lui, e viceversa. Io la penso come lui: la musica non è un posto per i semidei, ma per gli esseri umani. Steve Albini era la mia Phoebe Bridgers. Gli Shellac le mie boygenius.

Li ho visti solo sei o sette volte - nel mondo delle persone normali è comunque troppo, nel mondo delle persone come me equivale a non averli mai visti. Conoscevo le routine, conoscevo le canzoni. Ma ogni volta ti spaccavano in due, ogni volta mi dicevano qualcosa. Non è il nuovo che cerchi, quando ascolti: è il bello, il devastante, il toccante, il prezioso. Steve Albini sapeva dove andare a cercare tutta questa roba. Anche se la sua musica non ha mai fatto per te, dovresti provare a sentirla così: come un dono generosissimo. Secondo me, a quel punto arriverà anche a te.

Oggi che Steve Albini se n’è andato da questo maledetto pianeta, metto il video di quell’intervista anche qui, nel caso si debba ancora imparare qualcosa da lui. Probabilissimo. Anche i suoi dischi, come i suoi live, erano così: pieni di roba di cui ti accorgi ad anni di distanza. Vale lo stesso per parecchi degli album su cui ha lavorato, come ingegnere del suono (la parola produttore non gli piaceva), e sono tanti. Ma al di là delle sue idiosincrasie, penso che quelli non siano mai stati davvero roba sua: aveva troppo rispetto per i musicisti per considerarsi coautore del loro lavoro - lo aveva detto più o meno in questi termini parlando di In Utero durante alcune interviste per il trentennale di quell’album. Nonostante il tono amichevole della situazione (Conan O’Brien è pur sempre il miglior host di sempre), mi sembrava non del tutto a suo agio in quella posizione, come se stesse prendendosi dei meriti altrui.

L’ironia assurda di essere Albini e morire dieci giorni prima che esca il tuo nuovo (a questo punto davvero ultimo) disco è che stai consegnando al mondo la tua ultima parola. Ma Albini aveva sempre qualcosa da dire: in questo senso era anche un uomo di un altro secolo ma perfetto per l’epoca di Twitter. Mi piace pensare a questa figura familiare, conosciuta, ammirata così: come un patrimonio infinito di idee che continuano a essere interessanti e stravolgenti, sempre valide, eterne. Registrare musica è questa cosa: fissare, sì, ma per ricordare per sempre. Sono onde elettromagnetiche che una volta uscite dallo stereo non ci entreranno mai più. Come il messaggio alla fine del mondo di The End of Radio. Che al momento è l’unica canzone che mi viene voglia di sentire.

Can you hear me now?

Il concerto sta finendo, Bob e Steve smontano la batteria di corsa. Applausi.

Can you hear me now?

5 Commenti
Pucci
Pucci
Autori
Federico Pucci