Tutti gli sbagli dell’ultimo album di Taylor Swift
Il Taylorverso non è mai sembrato così inospitale. Alla fine: TTPD (Pucci's Version)
Mi è stato chiesto più di una volta di spiegare perché Taylor Swift mi piace (abbastanza da difenderla in un post che linko qui sotto). Ma, detto in breve: perché è una storyteller di talento, che sa fare uso di una lingua semplice (con qualche guizzo) ma efficacissima, consapevole che nessun’insalata di concetti sarà mai nutriente come un succoso filetto di metafore. E sto parlando di scrittura lirica, ma anche musicale. TS è una bravissima popstar (non la migliore), ma è un’autrice anche migliore. Di solito. Le questioni sulla sua rilevanza o importanza - venute fuori da una citatissima intervista a Courtney Love - non tolgono né aggiungono nulla a questi meriti e demeriti. Non è una questione di popolarità né di successo commerciale: è chiaro che David Bowie abbia definito gli anni ‘70 inglesi più di Donny Osmond, che pure ha venduto più dischi di lui in quel decennio.
Ma su queste cose non si possono assumere posizioni manichee: i numeri non sono tutto, ma non sono nemmeno niente. Comunque, di questi paradossi e dell’assurdità dello status di vittima che Taylor ancora si dipinge in faccia ho parlato su Fanpage in questo articolo dove provo a spiegare come e perché Fortnight sarà un successo (anche in Italia, attualmente è #27 su Spotify). Ma qui voglio provare a capire cosa rende mediocre The Tortured Poets Department, undicesimo e più recente disco della cantautrice americana: i testi, le idee, le produzioni, il Taylorverso. Perché, quando il vento gira, non succede per caso. Preparati, perché è una lettura lunga - potresti anche dover venire sul sito a leggerla - ma comunque dura meno dell’album che sto per fare a pezzi.
Trentuno tracce sono troppe
Nella discografia regolare di TS, escludendo edizioni platinum, internazionali e deluxe (alle Taylor’s version ci arriviamo) i dischi durano in media 55 minuti. Anche escludendo le 15 tracce aggiuntive che sono state pubblicate contemporaneamente alle 16 “canoniche”, TTPD dura 10 minuti più della media: solo Speak Now (67:29) durava di più, mentre la differenza con Red è di un solo secondo. E stiamo parlando di due bei dischi, ma non privi di filler. Poi è cominciata la battaglia per i master dei dischi pre-Lover, e le versioni ri-registrate degli album di TS son divenute sempre più lunghe (la famigerata All Too Well da 10 minuti non ha colpa, perché è migliore dell’originale).
Dove sarebbe il problema, se ai fan sta bene ascoltare ore e ore di TS? Prima di tutto c’è una questione di consumo culturale, su cui torneremo alla fine: TS tratta la sua musica uscita 10 anni fa come un artista di 35 anni più vecchio tratterebbe il proprio materiale d’archivio. Ma lo fa in parallelo alla sua produzione originale. E questo ha delle conseguenze positive: tipo, spianare la strada al tour con i maggiori incassi di sempre; e conseguenze negative: tipo suscitare una discreta stanchezza, come un pranzo di nozze che non finisce mai.
Seguiamo insieme le tappe (o le portate): luglio 2020, esce folklore - dicembre 2020, esce evermore - aprile 2021, esce Fearless (TV) - novembre 2021, esce Red (TV) - ottobre 2022, esce Midnights - luglio 2023, esce Speak Now (TV) - ottobre 2023, esce 1989 (TV) - aprile 2024, esce TTPD. Praticamente un disco ogni sei mesi da quattro anni a questa parte, che è un po’ il sogno di chi ragiona come Daniel Ek, il capo di Spotify. E se Taylor continuerà così, potremo aspettarci almeno un altro anno e mezzo di uscite a raffica: gli album da ri-registrare rimasti sono due - considerato l’amore dell’artista per la struttura, dopo quest’album (non proprio mal recepito, ma quasi) arriverà Reputation e infine, poeticamente per ultimo, il debutto auto-intitolato. Tutto questo è troppo per chiunque. Ma non per TS, che anni dopo aver tolto (e poi rimesso) la propria musica da Spotify, ora si comporta come se l’algoritmo avesse preso possesso della sua anima.
Ma in fondo, la prolificità è una colpa? No, però vorrei dire una cosa sul concept della poesia, intorno a cui ruota il disco. I poeti tormentati sono una parodia del gruppo Whatsapp dell’ex fidanzato? Sicuramente TS si definisce poeta. Lo dice lei, lo dicono le riviste che si sono prostrate di fronte a un disco che - a cose fatte - finirà nella seconda metà della classifica dei suoi lavori.
Quando nel mezzo della notte TS ha svelato che il disco sarebbe stato accompagnato da un secondo LP di canzoni inedite, ha detto: “Ho scritto talmente tanta poesia tormentata negli ultimi due anni che voglio condividerla tutta con voi”. Al netto del fastidio per l’incomprensione del termine antologia (cioè, il meglio, letteralmente “il fiore”), è chiaro che - tra il serio e il faceto - TS stia accostando la sua musica alla poesia. Possiamo discutere per ore di questa distinzione (e allora Bob Dylan!?). Ma pubblicare tutto non è poesia, è una parodia di WattPad. TS meritava un editor, qualcuno che la convincesse a togliere anziché tenere, a “girare la matita” e cancellare. Ed è un concetto sul quale torneremo. Partendo dai testi.
Ora veniamo al disco in sé: mettilo sul tuo servizio streaming di fiducia e segui mentre ti parlo di un po’ di cose che secondo me non funzionano. Sappi che farò riferimento alla versione estesa, perché ci voglio male.
I testi sono bruttini e tirati via
In almeno metà delle canzoni di TTPD c’è un verso o un distico o una strofa intera da buttare: sono metafore che non vanno da nessuna parte; frasi arzigogolate e macchinose; o semplicemente espressioni imbarazzanti che anziché dimostrare “sincerità senza filtri” sono la prova che Taylor è effettivamente “ubriaca delle sue stesse lacrime”, come dice lei stessa. Vediamo qualche esempio.
All my mornings are Mondays stuck in an endless February
—Fortnight
Almeno febbraio è il mese più corto, no?
I think some things I never say
Like, “Who uses typewriters anyway?”
[…]
I scratch your head, you fall asleep
Like a tattooed golden retriever
[…]
At dinner, you take my ring off my middle finger
And put it on the one people put wedding rings on
—The Tortured Poets Department
Non so da dove cominciare, è tutto così goffo…
Little did you know your home’s really only
A town you’re just a guest in
So you work your life away just to pay
For a time-share down in Destin
Florida is one hell of a drug
—Florida!!!
La tua casa è una città nella quale sei ospite? Non si poteva dire in un altro modo? E poi sei ospite in un’altra città per lavorare per pagare una multiproprietà (ommioddio) in questo posto da incubo qua? Eh?
So I leap from the gallows and I levitate down your street
[…]
I was tame, I was gentle ‘til the circus life made me mean
“Don't you worry, folks, we took out all her teeth”
[…]
You wouldn't last an hour in the asylum where they raised me
—Who’s Afraid of Little Old Me?
Paragonare l’opinione che il pubblico ha di te al patibolo, al circo, all’ospedale psichiatrico non è un po’ troppo melodrammatico?
You said normal girls were boring
But you were gone by the morning
—The Smallest Man Who Ever Lived
Ehm, non so come dirtelo…
Truth, dare, spin bottles
You know how to ball, I know Aristotle
Brand-new, full throttle
Touch me while your bros play Grand Theft Auto
—So High School
Tay, hai 34 anni: quando Lana diceva le stesse cose a 26 anni ci sembrava eccessivo, anche meno.
My friends used to play a game where
We would pick a decade
We wished we could live in instead of this
I’d say the 1830s but without all the racists
—I Hate It Here
«I would have voted for Obama for a third term if I could».
So, they killed Cassandra first ‘cause she feared the worst
And tried to tell the town
—Cassandra
Ammesso e non concesso che rappresentarsi come vittima di un linciaggio (nel primo verso del pre-chorus) sia una metafora proporzionata, TS non ha ben presente il mito di Cassandra.
Il problema con i testi non finisce con questa serie di frasi bruttine (per me, certo). Le canzoni sono troppo piene di cose: informazioni superflue, terzi giri di strofe-ritornello, giochi di parole mancati, similitudini mollate lì, allusioni che non comprendiamo, idee campate per aria (Charlie Puth non ha bisogno di essere un artista più grande di così, grazie).
Ribadiamo: a TTPD manca un editor. La lunghezza della tracklist (nella versione Anthology), paradossalmente, ben corrisponde alla mancanza di sottigliezza e alla diarrea verbale generale del disco (senti chi parla). Il che porta un’autrice normalmente precisa a perdere il focus. E allora l’abilità proverbiale di TS di modellare una canzone intorno a una metafora viene del tutto meno (con qualche raro garbuglio): tipo, da dove viene l’analogia dello spionaggio nel bridge di The Smallest Man Who Ever Lived? Non si sa. Funzionare funziona. Ma perché usarla e non tornarci più? E il tema del rapimento alieno in Down Bad? Un motivo narrativo assolutamente posticcio rispetto allo sviluppo del ritornello (cioè, la reazione adolescenziale alla fine della relazione). La cosa peggiore è che, senza voci contrarie che le dicano “no, questo è troppo” ci dobbiamo sorbire lo sviluppo di queste metafore in trovate sonore che lasciano decisamente il tempo che trovano: tipo, in Down Bad, gli effettini da nave spaziale che si sentono qui e là, come in una brutta parodia di Ross Geller.
Il livello di banalizzazione dei concetti e la scarsa cura delle parole per esprimerli, secondo me, si intravede perfino in questo grafico abbastanza ridicolo e assurdo sulla frequenza delle parolacce nei testi di TS. Quel mare di “fuck” e la generale impennata degli improperi in TTPD non sembra sufficiente a trasmettere l’urgenza di quello che TS vorrebbe dire, soltanto la sciatteria con cui lo dice. Non che una canzone non possa usare parolacce - figuriamoci - ma in qualche modo devono avere senso nell’economia del racconto: ad esempio, possono essere usate per comunicare l’impossibilità di dire qualcosa in altro modo, in questo caso l’incapacità di TS di dare un senso alla fine del rapporto, tema dominante del disco. Eppure, TS riesce a infilare più di 10mila parole in questo disco. Senza contare che “la fine di un rapporto” è il tema portante del 90% della sua discografia. Insomma, qualcosa da dire forse ce l’avrebbe. A meno che non ci stia nascondendo i dettagli più assurdi e macabri di queste ultime due relazioni, possibilità che pare fuori dal mondo visto che ci ritroviamo ad ascoltarne quasi una cronaca minuto per minuto.
Quando uscì l’ultimo album di Olivia Rodrigo, qualcuno - non ricordo chi - scrisse qualcosa del genere “è Taylor Swift ma con le parolacce”. No, mi spiace: TS con le parolacce suona esattamente come questo noiosissimo album.
Produzioni: l’unico break-up buono è quello da Antonoff
Alla fine è semplice: il contegno pseudominimalista synth-pop delle produzioni di Jack Antonoff non si presta al tono incazzoso di molte delle canzoni che Taylor Swift aveva sul taccuino a questo giro. (Se dovessi racchiudere in una frase la cosa che non va di questo album sarebbe questa). Ogni volta che in TTPD una canzone avrebbe bisogno di una spinta in un’altra direzione, o di un crescendo piuttosto intenso, questo tipo di arrangiamento applicato a questa strumentazione non ce la fa: penso soprattutto alle canzoni che avrebbero avuto bisogno di una sforbiciata, tipo la title-track, ma anche Florida! che non beneficiando di un bell’impasto di voci (mi spiace, TS e Florence Welch non si incastrano) non riescono nemmeno a buttarla in caciara con qualche effetto speciale. Di contro, prendi The Black Dog (sempre prodotta da Antonoff), senti l’impennata di dinamica quando TS pronuncia il verbo “screaming”: didascalico, ok, ma efficace. Il che mi fa pensare che Taylor Swift dovrebbe registrare un disco rock: ha bisogno di quel range dinamico (di volume, per intenderci) che le produzioni di Antonoff non hanno quasi mai.
Il primo respiro dell’album è la traccia 5: ovviamente So Long, London è prodotta da Aaron Dessner, che non inonda di riverbero la voce di TS e che fa iniziare la canzone con uno straccio di idea. Era ora. Non è una canzone perfetta: come abbiamo visto, è piena di piccoli accorgimenti che sanno di già sentito nella discografia swiftiana, e poi è una di quelle cronache senza filtro che fanno sentire in imbarazzo, come i fantasmi-voyeur citati in loml (che invece è una bella immagine). Ma il punto è che i brani prodotti da Dessner, specialmente nel disco bonus, suonano in modo completamente diverso, perché sono suonati da una serie di musicisti che hanno tutto quello che un pre-set nel tuo DAW non avrà: sono esseri umani. Il che mi fa sorgere una domanda: perché, con tutti i soldi che ha, TS si ostina a produrre dischi come se fosse in cameretta? Dove sono i mega-budget per far suonare la parte di basso da due musicisti contemporaneamente? Perché TS non dà da lavorare a un po’ di artisti anche quando non si esibisce dal vivo?
Alcune canzoni (Fresh Out The Slammer, The Alchemy, Guilty As Sin) funzionerebbero di gran lunga meglio con una band, con gli armonici naturali delle chitarre, con il tocco di una batteria vera. Perché se non usi l’elettronica per farmi volare, anche con pochi semplici suoni (gli ultimi due dischi di The Weeknd, tanto per citare un altro poppettaro) allora non la stai usando bene. E probabilmente, finirai per copiarti. Il che ci porta al problema dell’autoreferenzialità.
Non si esce vivi dal Taylorverso
In thanK you, aIMee, Taylor Swift scrive una lettera a una persona che l’ha bullizzata, a alla quale rinfaccia il proprio successo (delicatissima): se sono qui è anche merito tuo, grazie di essere il bersaglio delle mie canzoni. A un certo punto, nel bridge, canta: «And so I changed your name and any real defining clues». In una canzone che ha le lettere K-I-M in maiuscolo: direi che non hai proprio nascosto bene le tue tracce. Forse non esiste punto più basso nel taylorverso dove le allusioni, i messaggi in codice e gli easter egg dovrebbero costruire un racconto coeso e carbonaro, un labirinto nel quale soltanto con molto studio (o con l’aiuto di una pagina di Genius) riusciremmo a districarci: qui invece è tutto palese, ma ancora con la finzione del mistero; un rompicapo con la soluzione scritta sopra. Eppure, abbiamo imparato dall’universo cinematografico Marvel (e dal recente, crescente disinteresse nei suoi confronti) che una serie di indizi non costruisce una trama, che un piano marketing non è una narrazione.
Ho visto film Marvel meno interessanti e coesi di TTPD, che funziona come un brutto sequel di un sequel, tessuto connettivo per appiccicare insieme l’intera autobiografia di una persona che non si tiene manco un cece in bocca e quindi sbrodola («hi, it’s me»). A TTPD mancano uno story editor e uno script supervisor che tengano insieme questo caos di riferimenti e linee narrative. Lo dico così perché TS ha (legittime) aspirazioni cinematografiche e registiche, e allora deve sapere a cosa servono queste persone: a sistemare, rifinire e tagliare prima che debba farlo qualcun altro al montaggio. Prima di tutto, perché forse non è così divertente seguire caso per caso ogni singola fase delle sue relazioni: una brava storyteller come TS dovrebbe sapere che si tralasciano le parti meno interessanti e ci si concentra sulla parte più densa di significato e di informazioni affinché emerga una struttura che guidi l’ascoltatore - tu pensa che strazio se l’Odissea narrasse ogni singola sosta per pisciare del ritorno di Ulisse, e non una versione concisa e perlopiù già editata da un narratore. E poi, perché il giocone di indizi e messaggi cifrati che manda in sollucchero i fan di TS qui è particolarmente scadente e poteva essere più raffinato. Forse è perché sono esposto quotidianamente alla musica e alle storie dei musicisti, ma le allusioni a Matty Healy (uno dei due ex a cui è “dedicato” il disco) sono davvero evidenti e banali, al punto che dentro di me non scatta più il meccanismo di identificazione, ma una forma di voyeurismo: ok, sto spiando la popstar più ricca del pianeta e le sue tresche… non ho modi migliori di spendere il mio tempo? (Mi rendo conto che, arrivato fin qui, potresti dirlo anche tu).
In una delle più imbarazzanti e tremende tracce (Who’s Afraid Of Little Old Me?), Taylor dice: «So tell me everything is not about me. But what if it is?» (se senti un rumore, è la mia pelle che si accartoccia dall’imbarazzo). In un attimo quella che può sembrare la visione a tunnel di un’innamorata disperata si trasforma nella paranoia di una celebrità. E tutto ciò senza manco un briciolo della tensione di una Mastermind, per fare il paragone con un’altra traccia paranoica. Non dico che tutto questo non abbia risonanza nella cultura pop del 2024, checché ne dica Courtney Love: il vittimismo è un linguaggio universale e TS ne è maestra assoluta. Però da un’autrice del livello di Taylor vorrei qualcosa in più, uno slancio che universalizzi la storia, una ragione condivisibile per cui durante una crisi sentimentale ci si riduce a certi discorsi egoriferiti (“lo stai facendo a me”). E invece no, tutto ruota effettivamente intorno a TS e TS soltanto, il che allarga enormemente la ripresa dal resoconto personale alla cronaca di cultura pop: è pericolosa (per chi?), è messa alla berlina (da chi?). Forse si esprime così solo per un senso di vulnerabilità. Ma fino a quando potrò empatizzare con la vulnerabilità di una miliardaria? Potrei farlo, se le canzoni in cui prende di petto la questione della vita assurda e disumana delle popstar costantemente sotto osservazione e manipolate dall’industria non fossero così goffe e macchinose, se il tono di voce dei testi non fosse così inutilmente combattivo e - di nuovo - vittimista. Taylor sa esprimersi molto meglio di così. Molte tracce di folklore toccavano esattamente questo tema, ma per lo più usando l’arma principale dello storytelling: raccontare i fatti di qualcun altro (in una traccia cantava dal punto di vista di una palla da discoteca!). Qui invece sembra di stare dentro un articolo di Variety “i messaggi nascosti dentro le canzoni di TTPD”. E ti chiedi, di nuovo: perché sono qui? Cosa sto facendo del mio tempo? TTPD è Reputation con il desiderio di suonare come 1989 e di avere il tono crepuscolare e ferito di Midnights: ci prova per due ore di fila, cuocendo tutti gli ingredienti possibili nella stessa casseruola, e alla fine è un disastro.
Taylor dovrebbe guardarsi intorno di più (o di meno?)
Non sono un fautore delle teorie del plagio: anzi, io penso che questa parola andrebbe bandita per una quantità sufficiente di anni da permettere a ciascuno di farsi un’idea su una canzone senza dover ricorrere alla più banale delle accuse (“maestra, ha copiato!”). Però ci sono alcune trovate di TTPD che non mi convincono perché sembrano derivative, cosa che non dovrebbe essere permessa a un’artista di questa fama con schiere di persone che sentono la sua musica prima dell’uscita. A livello melodico e interpretativo, tanti passaggi sembrano ispirati a Lana Del Rey: l’attacco di Who’s Afraid of Little Old Me? ricorda quello di Blue Jeans (due serie di intervalli di un tono discendenti) per quanto in contesti armonici un po’ differenti; Cassandra è ha moltissime vibe Del Rey; The Tortured Poets Department si apre come Mariners Apartment Complex; l’hook lirico di Down Bad assomiglia pericolosamente a quello di Fuck It I Love You. In generale, TTPD dà l’impressione di voler essere Norman Fucking Rockwell! ma con i synth al posto degli strumenti che Lana ha costretto Antonoff a usare. Quindi, scadente, come quasi tutte le volte che si usa un synth per sostituire uno strumento anziché per creare qualcosa di inesistente nel mondo reale.
Diverse persone, tra cui Fantano, hanno fatto notare poi come l’intero gioco di parole su cui si basa imgonnagetyouback (“get someone back” inteso come “riprendere qualcuno” ma anche “vendicarsi con qualcuno”) sia lo stesso su cui si basa Get Him Back di Olivia Rodrigo (e pure quella di Fiona Apple che però Rodrigo aveva citato). Qualcuno nella multinazionale discografica più grande del mondo (che pubblica entrambe le artiste) le avrà detto qualcosa? Forse no, visto che fintantoché esiste un flusso continuo di musica, tutto va bene.
Viviamo nel paradosso per cui si continua a produrre sempre più musica, migliaia e migliaia di ore ogni settimana, ma allo stesso tempo il repertorio non ha mai avuto una vita così lunga. Questo non succedeva una volta, a meno che non si parlasse di alcune straordinarie eccezioni, divenute per questo proverbiali (tipo i Pink Floyd). In questo momento, invece, la discografia passata di un artista discretamente famoso continua a produrre una quantità di fatturato da - prendo in prestito le parole di Rolling Stone - Instant Classic. Lo streaming ha creato fanbase che - apparentemente - consumano a ripetizione la discografia del loro artista preferito: così, un disco che assomiglia a tutti gli altri dischi di TS, che usa la scusa della mitologia e dei rimandi interni per non aggiungere quasi nulla di nuovo, non solo non delude i fan, ma è commercialmente perfetto - e infatti TTDP ha già infranto tutti i record dei record. Magari è l’ultimo valzer: di fronte a una stanchezza tangibile, magari TS dovrà dimostrare se può accontentarsi della sua colossale fanbase, o se ha bisogno comunque di proiettare un certo appeal sugli ascoltatori più casuali. Per ora i biglietti dell’Eras Tour sono tutti venduti o quasi, quindi direi che lo misureremo dal prossimo album in avanti.
Non è tutto un disastro
Insomma, dopo questo muro di testo allucinante penserai che mi sono unito al coro, timido ma crescente, di delusi. Ed è vero, come dice Damon Krukowski che sembra di vedere l’inizio di un contraccolpo negativo. Però, e qui rispondo un po’ alla questione iniziale, Taylor Swift per me ha del talento pop indubbio. E si sente perfino in questo album sbagliato - del quale alla fine proporrò una tracklist corretta.
But Daddy I Love Him è una canzone che riesce a essere 100% Taylor Swift, giocando con la mitologia di TS ma anche scorrendo bene e suonando decentemente: il bridge è una dichiarazione piuttosto esplicita a quella parte nutrita della fanbase che scriveva messaggi tipo “stay away from her” riferendosi a Matty Healy dei 1975, uno dei soggetti delle lamentele di questo disco. La cosa interessante non è tanto il fatto che dichiari la sua libertà di agire rispetto alle proteste dei fan (vorrei anche vedere), ma che stabilisca una precisa gerarchia tra la sua vita e l’idea parasociale della sua vita che ne hanno i fan. Al punto da prendersi la responsabilità per l’evidente errore di frequentare un personaggio non del tutto stabile. Magari l’invocazione di “chimica” e “destino” non è il massimo, magari Ariana Grande aveva già detto la stessa cosa solo un paio di mesi prima in yes, and… ma è un buon punto di riflessione sulla Bestia che è stata creata da TS, una riflessione che forse sarebbe potuta arrivare prima, ma evidentemente l’unico livello di parasocialità percepito come un’oltraggio alla privacy e all’agency e del quale valga la pena parlare è quello delle opinioni sui fidanzati.
Le canzoni a cui ha lavorato Dessner sono decisamente migliori di quelle di Antonoff. loml è una traccia con una certa profondità e un certo spazio, nella quale i cori, le strumentali (la batteria di Glenn Kotche dei Wilco, un discreto manico) sembrano venire da luoghi diversi e non suonano come layer schiacciati sull’unica cosa che conta (la voce!). Clara Bow è - come avevo scritto - una delle due tracce migliori anche al primo ascolto, e il merito sta nello spazio dato ad altre voci, voci strumentali beninteso, e nella stesura di una narrazione che non sembra immediatamente incentrata su sé stessa (fino alla rivelazione finale), ma che può avere un significato per chiunque, in particolare se fa musica: “sembri questo, sembri questa” non è solo linguaggio da industry, è tristemente un giochetto al quale si prestano anche critica e commentatori casuali. In ogni caso, alla fine del disco (edizione normale) arriviamo a qualcosa che abbia un respiro più largo, che ci faccia pensare che al di là dei nostri schermi esista un mondo.
Anche pescando nel disco bonus, la solfa è la stessa: le canzoni di Dessner suonano meglio. The Albatross ha un respiro narrativo e una discreta profondità; Chloe or Sam or Sophia or Marcus ha quel livello di autocommiserazione e dolce cinismo da poter funzionare in un disco dei National; perfino The Prophecy, che ha molti elementi antonoffiani, ha un bell’arpeggio di chitarra e di cetra. Qualcosa, insomma, c’è. E per questo.
La tracklist corretta di The Tortured Poets Department
Fortnight
But Daddy I Love Him
Fresh Out The Slammer
Guilty As Sin?
loml
The Smallest Man Who Ever Lived
The Alchemy
Clara Bow
The Black Dog
The Albatross
Chloe or Sam or Sophia or Marcus
The Prophecy
BONUS TRACK
Down Bad (testo e arrangiamento rivisitati)