PW26: dischi mondi e dischi persone
A.G. Cook; Arab Strap; Amen Dunes; How To Dress Well; Lamante. In fondo alcuni concerti a Milano
Cercare di star dietro alle uscite è vano, come i miei tentativi di fotografare l’aurora. Tipo, mentre stavo terminando questa Weekly Childish Gambino ha pubblicato a sorpresa un disco. Ma son cose che si fanno?
Insomma, siamo di nuovo in ritardo sul ruolino di marcia. Ma non ci sconfortiamo: è stato un venerdì veramente molto denso di uscite. Che mi ha fatto scrivere più del solito (strano!). Andiamo al sodo. Qui c’è la playlist New Music Pucci aggiornata (anche su Apple Music). Naturalmente, si sono aggiornati anche i Cestoni: trovi tutto qui.
A.G. Cook, Britpop
Chiusa la baracca PC Music, A.G. Cook prova a fare i conti con il passato, presente, futuro di quanto hanno fatto lui e i suoi colleghi: il loro impatto è paragonabile a quello di altre british invasion musicali? No, lo sa anche lui. Il titolo Britpop per questo triplo LP ha un che di volutamente fuori luogo. Come un inglese in Montana - situazione vissuta da Cook durante il lockdown. Più che un compendio, allora (e passando dall’industrial alle Baleari, dall’hyperpop alla trance, ci starebbe pure) questo disco è un’ipotesi di ipertesto, cioè un sequel delle finte campagne pubblicitarie e trovate varie del giro PCM: i tre LP sono accompagnati da altrettanti siti (Wandcamp, Wheatport e Witchfork), deposito di una mitologia interna e moltiplicazione dell’immaginario, ma soprattutto squarcio dentro una weltanschauung. E la visione del mondo è britannocentrica, posizione non rivendicata con orgoglio, ma con stranezza, come quel senso di estraneità e familiarità che devono provare gli expat brit quando si ritrovano a una festa a Los Angeles. Figure mitologiche, un po’ celesti e un po’ goffe, come l’albatross famoso, o come la pop-centaura Victauria, che potresti incontrare in un club di West Hollywood. Per quanto ci sia dell’immaginario fiabesco, non è che Cook ti chieda di credere alle leggende arturiane: non è una aesthetic, è il linguaggio in codice di uno smarrimento geografico e generazionale. Forse per questo aleggia una malinconia, specie nel secondo disco più connotato da cifre “rock” - in realtà lo-fi da cameretta modesto ma molto genuino e pieno di melodie appiccicose. Vero, le molteplici letture affaticano: cosa vuole Cook da noi? A volte vorresti qualcosa di semplice, univoco, senza filtri. Aspirarvi è legittimo, ma sarà comunque una finzione, una vibe: se vuoi prendere una boccata d’aria, apri la finestra, non ascolti un disco.
Arab Strap, I’m totally fine with it 👍 don’t give a fuck anymore 👍
Il secondo album dal ritorno degli Arab Strap è la loro raccolta di roba più pesa finora. Ma non è un disco monotono, anzi: il modo in cui Aidan Moffat e Malcolm Middleton giocano con strumentazioni, riprese della voce, ariosità o claustrofobia, rendendo ogni traccia un’esperienza a sé, da un parte riflette la produzione di un progetto nato strada facendo, registrando una canzone alla volta; dall’altra corrisponde al disprezzo delle norme sociali messo nero su bianco. Che non è indifferenza, al contrario Moffat nota tutto, sente tutto. E l’arrangiamento lo riflette, respirando con lui, prendendosi pause e crescendo di dinamica con l’elevarsi dell’ansia o della rabbia: Sociometer Blues è un esempio da manuale di questo, bassi synth, drum machine, piano e chitarra al servizio di un flusso emotivo; Summer Season descrive il contrasto fra esterno e interno in un modo che sembra senza tempo perché è molto intelligente; Strawberry Moon è la traccia migliore dell’album, un contrappunto di chitarre e synth sopra un beat caracollante dove le cadenze del canto, poi ribadite dal pianoforte e una seconda chitarra, sono intime e dolorose come pugnalate. C’è una rabbia profonda, che si realizza non tanto sputando in faccia al mondo ma riesaminando con crudeltà le priorità delle nostre vite: è insomma un disco di enorme cuore, altro che “don’t give a fuck”; non devi andare lontano per capirlo, You’re Not There, che descrive l’atto liberatorio di scrivere messaggi a una persona morta, e puoi sentirci tre etti di magone tagliato spesso. Gli Arab Strap verranno a suonare in Italia tra il 20 e il 22 giugno, e con queste premesse, secondo me sarà abbastanza imperdibile.
Cos’altro è uscito venerdì
Si fa presto a dire che la musica non va giudicata solo come mucchi di note e ritmi, ma come un’arte più complessa e stratificata. Poi, però, i dischi che dovrebbero raggiungere questa sintesi, spesso falliscono (magari sono ascoltabilissimi). Death Jokes, primo album di Amen Dunes da sei anni a questa parte, sembra un’intera epoca condensata in canzoni, e rappresentazione della sua strana, contraddittoria, controversa relazione con la morte. Claustrofobico ma con una voce incisa come se fosse nella stanza con te; fitto di field recording, asimmetrie, poliritmi, ma a tratti esplosivamente melodico. Non so quanto spesso tornerò su Boys, ma una Purple Land o I Don’t Mind, o Round The World potrebbero restare in rotazione fino a fine anno.
A proposito di complessità, How To Dress Well: anche lui pubblica dopo sei anni di attesa, e I Am Toward You è un lavoro denso e travolgente, forse pure il miglior disco di quest’ultimo release day, ma da assorbire con calma. Come affascinanti, geometrici e ruvidi cristalli di fluorite, le canzoni di IATY sono ugualmente oggetti di studio e di ammirazione, solide proiezioni metafisiche. Il cuore di questo disco (che finisce con un cuore che batte, quello della figlia di Tom Krell nell’utero della madre1) è probabilmente On It and Around It, una piacevole riflessione su morte e destino. Un disco antinichilista ma non ingenuo, dove il mescolone di R&B, ambient elettronica, indie rock di Krell suona di nuovo fresco (A Secret Within The Voice), con pile di chitarroni effettati sopra le armoniche (Crypt Sustain) e una voce nepolatonica (The Only True Joy On Earth). Potrebbe anche finire tutto qui, potrebbe anche non essere il discone che risolve l’annata. Ma è stata una gioia da provare insieme.
Chicca indie rock della settimana è Poetry dei Dehd: il gruppo è in bolla, come se fossero dieci musicisti e non i soliti tre (e non certo per eccesso di sovraincisioni). Il risultato è che tutto sembra più urgente e meno collaudato, ma anche più universale: quando in Dog Days cantano «tutti quelli che conoscono hanno il cuore a pezzi» pensi che stia parlando anche di te, e che non parli soltanto d’amore. Mood Ring per me è la hit, ma te l’avevo già suggerita; Necklace è un’altra perla; Alien, anche (devo continuare?). Disco da mettere su per sognare che qualcuno capisca perfettamente come ti senti.
Devo citare brevemente anche Mayday di Myriam Gendron, artista canadese del Quebec, quindi bilingue, sbucata dal nulla dieci anni fa dopo una “gavetta” come musicista di strada con una collezione di canzoni sopra i versi della poeta Dorothy Parker (omaggiata ora nella deliziosa Dorothy’s Blues). Questo è il suo terzo LP, e tiene insieme folk quebecois, lavoro su Parker e qualcosa di molto personale, il lutto per la morte della madre. Ci suonano anche Marissa Anderson e Jim White (dei Dirty Three), con un loro disco in uscita lo stesso giorno. Da sentire per capire.
Infine, mi sono sentito la colonna sonora del film2 I Saw the TV Glow: non avendo visto il film, fatico a giudicarla. Però, è bella: ci sono dentro artisti eccellenti (L’Rain; Sloppy Jane; Frances Quinlan; yeule; Jay Som; Phoebe Bridgers; Maria BC), ed è abbastanza un viaggione surreale, insieme confortante e inquietante. Il fatto che esistano music advisor che assemblano soundtrack di questo livello mi fa ben sperare in qualche altro anno di creatività, prima che sia tutto giochini dell’AI.
Altri album
Nella playlist trovi anche qualcosa da questi dischi ed EP, senza tracce d’esempio perché questa settimana non mi sono contenuto (è anche uscita un sacco di roba buona, a mia discolpa!).
🌝 The Moon Is In The Wrong Place di Shannon & The Clams [psych folk; circo; fané]
😎 Ten Fold di Yaya Bey [R&B soul-funk-jazzato; parla di lutto; mattine e notti d’estate]
✝️ You Won’t Go Before… dei Knocked Loose [metalcore; groove; urla e schiaffi]
🪴 OUI, LSF dei Les Savy Fav [punk mezzo snob; un paio di manate; arguto ma sincero]
☝️ Another Side di No Good With Secrets [punk emo twee; chiamate perse; piangerini]🦋 That Golden Time di Villagers [alt folk pregio; vocissima; vulnerabile; intro paura]
🤰 Mirror, Reflect di Amy O [indie rock; festa della mamma lo-fi; sbatti e sorrisi]
🚎 Vendredi Minuit di Sofia Bolt [rock bergamotto; cantautori post-punk; francesi a LA]
🤣 Can We Please Have Fun dei Kings of Leon [rock coi synth; sciallo analogico]
😵💫 Swallowtail di Marissa Anderson & Jim White [alt Americana; strumentale; ipnosi]
💗 The Loop di Jordan Rakei [alt soul; Withers+D’Angelo+Blake; amore terrore]
😱 The Hollow di Keeley Forsyth [paura wave; voce ctonia, archi malvagi; classica nuova, non neoclassica]
🌆 Omni di Douglas Dare [metro synth pop; beat antartici; indietronica e vocione]
🤠 Stampede vol. 1 di Orville Peck [queer country & rock; radici; carisma a pacchi]
Italo dischi
Non c’è bisogno di ribadire quanto l’Italia abbia problemi con lo straniero. Come concetto, proprio. Straniero è una parola totalizzante, un’etichetta che annulla la complessità di una persona. I Selton, una band italiana i cui tre componenti sono brasiliani, sanno bene tutto questo perché non è la prima volta che ne parlano. Gringo Vol. 1 lo fa con sottigliezza. Parte con un adattamento di Sangue latino dei Secos e Molhados e finisce con una ballad psych folk in inglese che mi ricorda Sufjan Stevens: per dire il range. Non te l’aspettavi, come non ti aspetti da uno straniero che soffra come un cane per amore (Mezzo mezzo), o che gli arrivino illuminazioni sulla vita seduto davanti al mare (Maresia con una delicatissima Ginevra ai cori): e invece cgli succede, come a te. Il disco ha anche Marco Castello (Loucura), che praticamente è una garanzia di pregio a scatola chiusa. Aspettiamo il volume 2 e via.
La prima volta che ho sentito parlare di IRBIS veniva presentata come una band trap e aveva un 37 alla fine. Se, come nel meme, ti distrai per quattro anni (succede, specie se l’artista resta praticamente fermo per 4 anni3) oggi senti Lacrime e cemento e ci senti lo-fi indie rock sciallone4 realizzando un po’ la cosiddetta profezia Ketama 126: a un certo punto i trapper e dintorni fanno il giro. Il disco, prodotto da CERI e Colombre (che ha esperienza nel lavoro con artisti venuti fuori da quella scena) suona piuttosto bene, ma una delle cose che mi piace di più è che la voce di Martino Consigli (IRBIS) suona vera, suona sua, non cade facilmente nelle affettazioni tipiche della sua generazione. Anzi, ci sono pezzi come Vernice nera che ha dei brevissimi istanti battistiani (senti e li trovi subito); ma più dell’origine di queste fioriture, è proprio la ricchezza e varietà del suo canto che mi importa, con questo timbro sottile (Impressioni), che esige attenzione senza gridare. Il disco ha un’opening track abbastanza ineccepibile (Assurdo) e un singolone (Preghiera) che se questo Paese avesse uno straccio di decenza sarebbe in Top 50 su Spotify. L’eclettismo del suo suono (ora funky, ora folky, ora indietronico) non sempre funziona. Ma son difetti buoni, perché in nessun caso sembra che IRBIS stia seguendo un trend: sta solo tentando. Un disco che è un processo, più che un risultato; è l’atto stesso di averlo scritto e suonato. In un mercato pieno di roba precotta, Lacrime e cemento deve ancora finire di asciugarsi.
Se tutte le popstar italiane fossero come Ditonellapiaga, staremmo il 50% meglio come società. Flash è il suo secondo disco, e mi ricorda le prime uscite dei Coma_Cose (peraltro ospiti nella carinissima DNA) per come dirotta nella propria direzione abitudini compositive e produttive dell’indie pop italiano, come certi livelli di bassi da far tremare i denti (almeno, sentendolo su Apple Music). Il disco funziona anche perché non mi sembra venga divorato dalle personalità dei produttori presenti: okgiorgio, il solito ottimo Francesco Fugazza e il duo Benjamin Ventura-Alessandro Casagni (nei due ottimi featuring di Gaia e Whitemary, toc toc) non si strattonano e non si impongono. Chiaramente si tratta di un disco fatto - come si dice - “con un’idea”. Bravissima, Margherita.
Mi prendo altre due righe per segnalare In memoria di di Lamante, artista che ti consiglio dall’anno scorso e ora esordisce con un disco che contiene diversi singoli già segnalati, come l’ottima intro. I suoi pezzi sono dissidenti, spesso incazzati (Non chiamarmi bella). Ma il punto non è la rabbia, quanto la mancanza di grazia. Al posto di tanta vulnerabilità sanificata, Lamante sottolinea le brutture pure quando parla d’amore con sentimentalismo (Prima di te); è brutale quando descrive la prima volta (L’ultimo piano); fa l’equivalenza maceria=memoria (La nostra prova di danza). Perché questo disco racconta un distacco, e non esistono separazioni carine, indolori. Nel presskit c’è questa sua dichiarazione: «La mia famiglia sta in piedi da troppo tempo, io sto in piedi da troppo tempo in un equilibrio che sappiamo tutti essere precario. Davanti ai legami di sangue perdiamo solo per il fatto di esistere ma io non voglio più vivere nell’ombra dei padri». Chi parla così? Una persona interessante. Con una band shoegaze sarebbe tipo i Wednesday, e sai quanto mi piacciono. L’aspetto al MI AMI.
Il trapianto dell’hip-hop nella cultura pop italiana non è stato rigettato per ragioni molto stupide: tipo, perché si è aggrappato alla pancia del Paese, dove i milionari si fingono gente del popolo. Nel frattempo, una nuova generazione sta artisticamente mangiando in testa agli artisti multiplatino caduti in quella trappola. Tipo Ele A, che ha pubblicato venerdì il suo primo EP, Acqua. Un lavoro prezioso perché racconta viaggi completamente interni alla testa (Gocce: «So chi sei dalle cose che non dici», eh già); perché raccoglie voci non banali (Nerissima Serpe); perché descrive la strada senza il glamour dell’avidità (Oblò); perché ha la pasta di Little Simz e l’aura del primo Mecna (Neve), ma anche un flow percussivo veramente old school (Ko). Curiosissimo di sentire anche lei al MI AMI.
Michelangelo Vood parte con un vantaggio rispetto a tanti colleghi cantautori indie italiani: ha una voce interessante. Il suo album d’esordio, Non c'è più tempo, sembra una lista della spesa del genere: accordi di settima maggiore; voce davanti nel mix; citazioni di messaggistica istantanea. Eppure, per esempio, Scemo è graziosissima. La ragione? Credi nella frustrazione da trentenne di Michelangelo. Non è poco, ma forse non basta ancora.
Infine, ho ascoltato anche:
🌳 Bellafine dei Lombroso [NoLo folk; chamber pop disperato; melodie affumicate]
👥 Penombra dei Niglio [elettronica glaciale; pop psicanalitico; 2-step e folklore]
🐺 Pelle di Lupo di Ulula [indie pop tronica pazzerella; sciamani urbani; su le mani]
E poi al giorno d’oggi chi ha tempo per i singoli?
Nessuno, a questo giro, quindi vai a sentire Hind’s Hall di Macklemore i cui proventi vanno interamente all’agenzia dell’ONU per rifugiati del Medio Oriente, UNRWA. Mentre mezzo mondo vuole il circo e il sangue del beef tra Drake e Kendrick (ora arrivo con il pezzo su di loro!), qualcuno guarda a quello che succede sullo sfondo. E Macklemore non è il primo, chiaro, Redveil l’ha fatto a novembre. Ma fa sempre specie vedere come l’attenzione dell’umanità vada sempre verso gli spettacoli crudeli sbagliati.
D’altronde, di cosa dovremmo parlare: del team up di it girl nel video di 360 di Charli XCX? Simpatico, ma visto un milione di volte in altre salse: piuttosto, vatti a vedere John Cale che balla una coreografia, quello sì che non è uno spettacolo comune.
Segnati ‘sti nomi: O.; Arooj Aftab; Parannoul; Sis; World News; Kevin Abstract & Lil Nas X; Hinds & Beck; Draag; Teen Daze feat. Sam Wilkes; Isobel Campbell; HÅN; TA GA DA; Mattia Faes.
Qualcosa da leggere
Se non ti è bastato questo muro di testo, su DLSO ho provato a capire perché in Australia sono così bravi a far musica psichedelica. E oggi ho scritto di Bar Mediterraneo, il secondo disco dei Nu Genea, che ha qualcosa da dirci a proposito del peso delle contaminazioni.
Un po’ di contesto sulla canzone che probabilmente tormenterà parte delle vostre estati, su Fanpage (ma è una scusa per parlare di Apache).
E forse mi è venuto il dubbio che dobbiamo riascoltare tutti i terzi brani dei dischi prodotti da Steve Albini, qua sopra, su Humans vs Robots. (Ma se vuoi leggere un profilo di Steve Albini fatto bene, leggiti sul Guardian il ricordo di Will Oldham o quella miniera di omaggi e pensieri raccolti da molti altri musicisti che hanno lavorato con lui).
Forse mi trovi lì (concerti)
Stasera all’Arci Bellezza c’è Massimo Silverio del cui album Hrudja ho parlato benissimo qui.
Giovedì 16 c’è Bonnie Prince Billy in Santeria: altro disco amato moltissimo, il suo ultimo.
Venerdì 17 potresti trovarmi da Deena Abdelwahed a Base, anche se la band math-rock taiwanese Elephant Gym al Legend mi attira (e ci arrivo a piedi!). C’è anche Shabazz Palaces al Biko, ma passo.
Sabato 18 potrei andare da Mahmood al Fabrique, visto che il suo disco mi è piaciuto, ma come si può resistere alla tentazione di sentire un fisarmonicista ambient bielorusso praticamente sotto casa? Parlo di Yegor Zabelov al Nuovo Armenia.
La prossima settimana c’è il MI AMI: l’ho citato due volte, mi toccherà andarci.
quanto può essere poetica o inquietante una stessa cosa, a seconda delle intenzioni; curiosa coincidenza, questa settimana è uscito anche un altro disco che usa il battito cardiaco fetale: il carinissimo Mirror, Reflect di Amy O, nella bella prima traccia.
non ho sentito ancora per intero quella di Challengers, ma quel che mi è arrivato è ottimo, industrial minaccioso sexy ossessivo, tutto ciò che penso del tennis.
come è suo sacrosanto diritto, peraltro.
mia traduzione di “slacker”.