Fare autocritica
Pucci (bi)Weekly 03x18: caroline; Stereolab; These New Puritans; Alan Sparhawk; yeule; Aesop Rock; Casino Royale; Merli Armisa; Laguna Bollente.
Qualche settimana fa, in un’intervista di NPR organizzata per celebrare il decennale di Carrie & Lowell (uno dei dischi ai quali ho dedicato i minuti più tristi della mia vita, un capolavoro senza mezzi termini), Sufjan Stevens ha confessato di sentirsi un po’ in imbarazzo quando ci ripensa. In sostanza - dice Sufjan - lo mette a disagio il modo in cui ha trattato la storia e la morte di sua madre: “Mi è sembrato di essere manipolatorio, egoriferito, solipsistico, autocommiserante”. Anche le sue liner notes incluse nell’edizione del decennale fanno mea culpa di questo lavoro, quindi non è un’opinione estemporanea affidata a un’intervista: l’errore che rivede in quel disco è stato aver creato un racconto intorno al dolore di una persona vera, sua madre, senza chiederle il permesso, dando priorità alla sua ambizione artistica rispetto all’empatia umana. E a questo punto, che facciamo? Possiamo anche trovarci in disaccordo con il musicista, e continuare ad amare quell’album. Forse l’atteggiamento più maturo è continuare a interrogare l’opera d’arte anche alla luce dell’autocritica, non per abbandonarla ma per metterla in dialogo con una versione più esperta e navigata di noi stessi - a meno che per te ascoltare un disco sia solo un modo per tornare ai tempi in cui lo sentisti per la prima volta, il che non mi appartiene tanto. Gli artisti e le loro opere, anche le più amate, non devono considerarsi immuni dalle rivalutazioni perché non sono impermeabili al tempo. Nessuno aveva chiesto a Sufjan di mettere sotto scrutinio uno dei suoi dischi più acclamati, di farsi un esame di coscienza e insinuare un dubbio etico sulla sua opera. Ha fatto tutto da solo, forse pensando all’età che avanza, forse immedesimandosi nella madre - nel frattempo ha compiuto 50 anni, auguri. Ogni artista degno di questo nome dovrebbe provarci: fare autocritica, non solo quando le vendite o le recensioni non sono gradevoli.
Anch’io faccio autocritica, qui, perché la Pucci Weekly si è interrotta per un mucchio di settimane. Forse è il momento di rivedere il carico di questa rubrica, non solo materiale e temporale, ma mentale. La Pucci Weekly non si fermerà, ma dovrà cambiare (ancora una volta). Approfitto di questo momento di autocritica per avvisare che stanno per tornare delle interviste e altre cose usciranno prossimamente, specialmente gli approfondimenti per abbonati a pagamento che hanno continuato a sostenermi anche durante questa pausa. Insomma, ci rileggiamo presto.
Intanto, qua sotto c’è la playlist New Music Pucci in una versione espansa, con le tracce delle ultime due settimane di maggio - eh già, ho qualche arretrato da recuperare - si può ascoltare anche su Apple Music. Tutte le tracce che ti ho segnalato dall’inizio dell’anno a oggi sono contenute in un’unica titanica playlist, cioè il Cestone Pucci (su Spotify e su Apple Music). Inoltre, ho due playlist in cui sto raccogliendo il meglio dell’anno: finora 2025 mondo (su Spotify e su Apple Music) e finora 2025 italia (su Spotify e su Apple Music). Pian piano aggiorno anche loro. E ora, fai partire questa playlist e vieni a leggere sul sito che tanto la mail arriverà tragicamente troncata.
⭐️ caroline, caroline 2 ⭐️
Fuori dai circoli di metallari quasi nessuno parla del blast beat. Son tutti bravi a raccontarti il motorik (anch’io l’ho fatto un po’ di volte), o l’amen break, perché di fatto queste molecole ritmiche sono uscite dalla nicchia e hanno contagiato il discorso musicale largamente inteso. Ma il blast beat mica tanto: si sente un po’ nelle varianti di hyperpop che stanno recuperando parte dell’estetica death metal, ma incontrare quest’unità metrica utilizzata in modo funzionale non è così frequente. Se vuoi sapere come suona, fa così: la cassa viene battuta ogni sedicesimo (cioè sedici volte per ogni battuta, spesso per questo si usa il doppio pedale), e con le bacchette si batte su un piatto a tua scelta e sul rullante alla metà della velocità (che è comunque piuttosto velocemente); l’effetto è quello di un maniaco che si è seduto per la prima volta davanti a una batteria e cerca di dare fastidio a tutti gli astanti. Beh, i caroline usano questa batteria nella seconda metà di Two riders down: la senti crescere in dinamica dal minuto 3:00 circa, poi cala e sembra un elicottero lontano, poi risale nel finale esplosivo tra il suono di quello che sembra un clarinetto contrabbasso e altri legni e ottoni catastrofici. Cosa ho appena sentito? ti potresti chiedere. Beh, hai sentito la banda di fenomeni da baraccone più cool del momento: i caroline, otto regaz da Londra che a furia di ritrovarsi a fare jam sono finiti per rappresentare l’ennesima speranza del rock alternativo inglese. Ma il loro hype è abbastanza giustificato, perché caroline 2 è un gran bel disco. Anzi, due gran bei dischi.
Se ci fai caso, sotto When I get home c’è una cassa che batte lontanissima, come se durante la registrazione di questa straziante e ossuta canzone d’amore e di necessità nell’altra stanza qualcuno stesse ascoltando dance tamarra o industrial nichilista. La cassa batte dritta a 120 bpm, mentre la canzone ha un tempo almeno il doppio più lento, ma fluttuante e decisamente senza click. Alla metà esatta precisa del brano, dopo 3 minuti e 3 secondi (un po’ una pippa da fissato, se mi permetti) la cassa scompare e il tempo si fa ancora più fluttuante. Nelle canzoni dei caroline succede quasi sempre che delle cose succedano contemporaneamente, forse all’insaputa l’una dell’altra: una canzone parte, e poi ne arriva un’altra, e questo si sente perfettamente in Coldplay cover, dove metà dell’ottetto suona un brano (un po’ midwest-emo folkeggiante) in una parte dello studio e poi il microfono passa a un’altra parte dove ne viene suonata un’altra (chamber-folk elegante). Questa cosa assomiglia molto a come si componevano le fughe in età classica e barocca, con una melodia secondaria che si sovrappone alla principale e poi ne prende il posto. E non è l’unico caso in cui qualcosa di molto antico emerge in questo affascinante disco.
U R UR ONLY ACHING è la prima canzone del 2025 che mi capita di sentire (e ne ho ascoltate già oltre 10mila) che usa un crescendo propriamente detto, perché ottenuto pestando di più sugli strumenti acustici della prima metà del brano. I caroline usano concetti antichi della musica, li applicano a una scrittura che deve molto ad Alex G (Giannascoli è una delle fonti esplicite), a un concetto di strumentazione avant-folk alt-rock che deve molto ai BC,NR e all’ondata di secchioni che come loro hanno messo mano ai vari revival post-rock e post-punk di recente. Beautiful ending ti fa ragionare su come la costruzione di un brano un mattoncino alla volta sia qualcosa di tangibile: parti con delle tastiere subacquee e una progressione, e non la molli mai, alla faccia della varietà armonica, ma aggiungi uno strumento alla volta, manipoli la geometria e i volumi dei suoni, succhi via l’aria e fai entrare una chitarra, e poi ricostruisci, e poi togli: beh, anche se non avrai cambiato una virgola della matrice di partenza, avrai tra le mani almeno due canzoni in una. A volte il doppio è dentro di te.
caroline 2 non porta quel numero solo perché è il secondo disco, ma perché è un invito a ragionare sul doppio, sul multiplo, sulle realtà parallele che stanno davanti ai nostri occhi e non nel multiverso. Forse questi ragionamenti tendono verso il lezioso, eppure glielo si perdona - chiamare Caroline Polachek nella bellissima Tell me I never knew that era necessario? Ma - se ci pensi - è vero che ogni cosa ne contiene almeno un’altra, che la semplicità è un’aspirazione e quasi mai un dato di fatto del reale: questo è un po’ il messaggio matrioska che ci vuole suggerire la band. Oltre gli estetismi cervellotici, è quando si lasciano andare e provano a mostrare la furia dentro il controllo che brillano: tipo quel blast beat che dicevo all’inizio. Perché a volte l’altro che non si vede è solo l’elemento meno posato e più bestiale che ha bisogno di farsi notare. Se solo succedesse più spesso, in questo bel disco, avremmo appena sentito un degno candidato alla top 10 di fine anno.
📀 Tutti i dischi 📀
Il contrario delle estati infinite dell’adolescenza sono le estati in cui non hai momenti di pace e ozio: Instant Holograms On Metal Film, il ritorno degli Stereolab dopo 15 anni, è il ricordo di quelle emozioni di infinita possibilità stampate sulla superficie arida di un presente molto meno magico. Transmuted Matter è una canzone che fa i conti con la natura completamente umana e completamente divina delle nostre anime (che parola spaventosa!), comunicando anche alla musica la fascinazione di un riverbero sberluccicante e l’asciuttezza della voce di Laetitia Sadier. Forse il bridge, con un acuto e un’apertura, ci vuole convincere che andando avanti con gli anni il cuore ha avuto la meglio? Forse La coeur et la force con il suo bizzarro ottimismo cosmologico ci sta passando lo stesso messaggio? Forse la distruzione del mito di Vermona F Transistor spegne questi entusiasmi? Per me la musica degli Stereolab sta sempre in questa tensione, la stessa che fa convivere un beat motorik industriale con un tresillo latino (fai caso alla batteria di quest’ultima canzone). Siamo esseri umani e viviamo in realtà che ci modelliamo da soli - uno dei temi costanti del disco, dove la sfera semantica del plasmare è dominante - e la nostra disperata ricerca di “recuperare una completezza” (Esemplastic Creeping Eruption) non può domarsi. Forse questo disco non ti trova in un momento della vita nel quale ti senti a tuo agio ponendoti queste domande e accontentandoti di restare in bilico: se invece sì, potrebbe essere uno degli ascolti più fruttuosi dell’anno, e non potrei far altro che raccomandartelo.
Nel disco dei These New Puritans c’è una canzone in cui due gru (nel senso dei macchinari che tirano su i palazzi) si dichiarano amore: Industrial Love Song, dove una delle due parti è interpretata da Caroline Polachek, è una canzone di bellezza commovente, che deve accettare i limiti che la natura pone, come il fatto che due gru non possono avvicinarsi ma dovranno per forza amarsi a distanza. Crooked Wing, un’ala storta, ruota intorno a concetti di questo genere e ammira con sensibilità la grazia delle cose incomplete, dei sentimenti che possono esistere solo in astratto, della beatitudine teorica (“What paradise?” si chiede la stupenda e quasi immobile I’m Already Here). Un disco straordinario, che ha il buon gusto di alternare diverse consistenze e diversi sapori, dall’elegiaco pastorale all’industriale metallico, dal sospeso e corale al martellante e clubbaro, ma sempre in cerca di una purezza impossibile, e questo lo rende uno dei dischi sperimentali più riascoltabili dell’anno.
La direzione che stavano prendendo gli Home Is Where era piuttosto chiara dal loro precedente disco, il bellissimo The Whaler, e Hunting Season deposita il gruppo emo pienamente nella contaminazione strambo-country che non solo merita la scrittura lirica riflessiva e autocommiseratoria di Bea McDonald, servita ancora con una prodigiosa prova vocale di immersione nella disperazione (“like the dog I am” in Migration Patterns ti apre un buco nel cuore), ma che mette in risalto la potenza melodica del complesso. Uno slide di qua, uno strillo che sembra yodel di là, e ti accorgi della fragilità insita nella musica della provincia americana, un unico tenue filo che arriva fino alla carica di un ordigno inesploso: contraddizioni, ultime spiagge, mormoni che ascoltano black metal (“eravamo dolci o stupidi quando pensavamo che tutto sarebbe andato per il meglio?”, frase troppo vera). Ogni canzone è la scena di una sconfitta, ogni descrizione si mescola nella successiva così come i motivi melodici e strumentali che sembrano far parte di una sinfonia. E forse questo è anche il difetto del disco, dove alcuni brani sembrano confondersi, richiedendo una maggiore attenzione: per questo il tempo lento e funereo di Everyone Won The Lotto mi ha pigliato per il collo, e te la metto in playlist.
Quattro anni fa, il debutto dei Moontype dai Chicago ricevette alcune discrete recensioni in giro per l’internet. Al giorno d’oggi il loro blend di suono indie rock che unisce sciallo anni ‘90 e strambo anni ‘70 non è così popolare, e quindi molti hanno direttamente ignorato il secondo album Let The Wind Push Down On Me, nonostante gli sforzi (secondo me riusciti) del fu trio ora quartetto di aggiungere timbriche shoegaze con chitarre decisamente più larghe, risonanti, ruvide: Long Country, che ti segnalai come altri due singoli, è un buon esempio di questo lavoro sui suoni. Per me, però, la cosa più interessante è la complessità strutturale nascosta in piena vista: Four Hands ii ha le spirali labirintiche di un pezzo dei Fleetwood Mac, dei Big Thief o di Aldous Harding, e per me è un pezzone; l’inciampo di tempi dispari che si intrufolano nel refrain di Walking In The Woods dipinge con i suoni la scena e ti scuote dal torpore
Nell’ecosistema culturale completamente andato a gambe all’aria in cui viviamo, “suona come” è diventata la scorciatoia di qualsiasi discorso, dal più genuino e informato al più complottista e infame: tutti insieme, però, partecipiamo a un gioco da cui nessuno uscirà vittorioso per cui siamo obbligati a cercare pattern familiari in quello che ascoltiamo e vediamo, come se non ci fosse spazio per l’originalità anche nella ripetizione. Sounds Like... dei Florry - che peraltro è un ottimo ascolto da fare in successione con il disco degli Home is Where di cui sopra - gioca con le aspettative, ma non in senso stilistico: semmai, con la distanza tra prima impressione e razionalizzazione, e così finisci per assaporare l’imprevisto più che il familiare, l’accordo sbilenco a tre quarti di Sexy, la slabbratura della voce di Francie Medosch dentro la scintillante confezione co-prodotta da Colin Miller di Dip Myself In Like An Ice Cream Cone o di Hey Baby. Ma il deragliamento delle ultime tre tracce, specie i sette minuti di delirio younghiano elettrico di You Don’t Know sono la perla di questo disco molto bello.
“Son tutte stronzate da Romanticismo tedesco, non ti puoi redimere piangendo”: dentro il primo disco da cantautore del chitarrista Marc Ribot, Map Of A Blue City, c’è questa meravigliosa ballata continuamente alla deriva, For Celia, che si chiude con una strofa che dice la frase di cui sopra. Siamo programmati per credere a una serie di idiozie, che dobbiamo saper riconoscere come tali - e devo dire che io quando noto in giro tracce di Romanticismo metto mano alla fionda, quindi ogni critica è ben accetta. Preferisco i momenti più ruvidi, ipnotici, come il riverbero galattico della chitarra nella title-track, come l’andatura zoppicante di Sometime Jailhouse Blues, come il finale techno-folk-noise completamente svalvolato.
MAD! degli Sparks raramente è al livello dei primi singoli (Do Things My Own Way, in particolare), ma Hit Me, Baby è un bel momento di sovversione del significato, dove una richiesta tipo “dammi un pizzicotto” di fronte all’assurdità del reale si trasforma in un gioco di ruolo e poi viceversa torna alla follia, come se la stranezza fosse l’unico modo per sopravvivere al nostro tempo.
Voci raddoppiate, chitarre che pattinano sopra ringhiere, batterie al tempo del nostro cuore: Downpour dei Charmer è uno di quei dischi emo e punk che ti tirano su con un soffio, nel break vocale di Night prima dell’ultimo inciso, nelle salite e nelle pause di Blink, nel suono della già elogiata e segnalata Blue Jay (uno dei pezzi dell’anno per me). Le canzoni, poi, sono allacciate in un modo che le fa sembrare tratte da un’unica sessione dal vivo, ed è un particolare che aggiunge urgenza e respiro: devi ascoltare, devi prestare qualche minuto di attenzione, ne varrà la pena. Un disco che ti libera, un po’ catarsi e un po’ urlo primordiale: se passano in Italia te lo dico subito, perché secondo me un loro concerto con queste canzoni sarà memorabile.
Un disco con tanto hype che non mi ha sempre convinto ma va certamente ascoltato se vuoi tastare il polso della sensibilità avant-pop del 2025 è DAISY del producer spagnolo rusowsky (Ruslán Mediavilla). I producer album sono sempre un po’ una bestia strana, a metà fra pulizia dell’hard-disk e megalomania senza faccia: l’effetto finale, spesso, è quello di un iTunes lasciato andare a riprodurre musica in modo casuale finché, visto da lontano, tutto non ha perfettamente senso. BBY ROMEO e project tu culo sono ballad scintillanti e vaporose, mentre l’apertura KINKI FÍGARO è ondivaga eppure ossessiva come solo le vecchie hit da club di una volta, che ti trovavi a ballare dopo un minuto senza nemmeno capire perché - c’è una forte impronta di nostalgia anni Zero di sottofondo, non a caso, con il ripescaggio delle Las Ketchup nella peraltro deliziosa Johnny Glamour e la citazione di un “papi chulo” che ti colpisce alle spalle quando meno te lo aspetti (quindi non ti dico in quale brano arriva). Il finale Motown-devastato 99% toglie ulteriori certezze a chi cercasse di trovare un senso in questo disco, che vuole confondere e rassicurarti: è il 2004, hai 20 anni, incontri per strada un adesivo giallo con la silhouette nera di un gorilla di profilo e un indirizzo MySpace, vai a sentire e scopri una roba che non ti salva la vita, ma ti risolve una settimana e ti fa sentire il più ganzo del club.
Big city life delle norvegesi Smerz (Catharina Stoltenberg e Henriette Motzfeldt) è un altro caso di musica elettronica particolarmente indebitata all’R&B di fine millennio che esce dal nord Europa. Meno contorto della vicina Erika de Casier, il loro approccio apparentemente apatico scivola via con queste descrizioni di serate che - almeno stando al mood - non sembrano particolarmente esaltanti. Fra trip-hop, foto sbiadite alla Tirzah e memorie delle All Saints di Pure Shores, il disco brilla nei lenti, impassibili come il tono di voce che appena appena emerge sopra i beat slavati, ipnotici come l’insistenza sul tema vuole suggerire (Big dreams e Dreams in una sola tracklist è una scelta coraggiosa). Curiosissima la title track iniziale, che vorrebbe evocare clubbing e invece è spigolosa come un dance-punk particolarmente marcio. Affascinante, ma onestamente non sempre fatto per me. Molto belli i singoli Feisty e You got time and I got money, valgono l’ascolto anche l’incellofanata Dreams e A thousand lies, che dalle spire di un riff glaciale riesce a tirare fuori quasi un refrain memorabile.
Di The Painful Truth degli Skunk Anansie si potrebbe facilmente fare a meno, basandosi sulla non eccelsa produzione del gruppo negli anni Dieci. Ma a parte qualche singolo invecchiato non benissimo (An Artist Is An Artist), qui dentro c’è della roba decentissima, quasi sempre per merito di Skin: l’acuto di Shame; la melodia di Lost And Found, che spezza la sua scansione ritmica e tocca intervalli non banali corteggiando la dissonanza. Peccato che la produzione sia generalmente di cattivo gusto (Shoulda Been You, in particolare).
Ten di Shamir è una raccolta di indie rock piangerone che riflette su dieci anni di carriera e di vita del musicista, con una domanda di fondo (sono diventato più maturo?) che rimane sospesa. Shamir dice che è il suo ultimo disco, vai a sapere se sarà vero. Sicuramente mancherebbe il suo gusto di riportare, praticamente identiche, certe chitarrone distorte e certi tormenti che non possono non ricordare gli anni d’oro degli Smashing Pumpkins e cose così.
Boys These Days degli Sports Team non è granché, e può essere usato per segnare i confini oltre cui il pastiche del revival post-punk inglese può arrivare alla più pura e non divertente insensatezza. Meno male c’è Bang Bang Bang, che è un pezzo spassoso di satira sugli Stati Uniti visti da un paese, se possibile, quasi più assurdo e crudele.
Di Ganavya, musicista newyorkese cresciuta nel sud dell’India e ora di base in California, che ha collaborato negli anni con artisti come Shabaka Hutchings, Esperanza Spalding e i Sault e si è distinta per la sua fusione di canti religiosi Tamil e jazz spirituale, si è parlato molto bene l’anno scorso per il suo album Daughter of a Temple, costruito in movimenti e improvvisazioni molto ambiziose. Questo nuovo disco, Nilam, secondo me è anche migliore: più semplice e straordinariamente melodico, anche se non ho avuto il tempo per approfondirlo, mi ha addolcito tempi davvero duri per tutti con il suo tono di celebrazione, intimo ma festoso (Song for Sad Times è la mia scelta, forse non per caso). A proposito di Shabaka, ho apprezzato l’eclettismo e l’entusiasmo di The Ordinary Life of a Magic Woman di ESKA, cantautrice londinese che ha prestato la voce a Perceive Its Beauty… e a una serie di dischi degli UNKLE (il che dovrebbe dirti la sua capacità di spaziare tra pop, elettronica, jazz e molto altro). Erano dieci anni che non pubblicava un LP tutto suo, e come si può intendere dal titolo, qui passa in rassegna sfide e privilegi dell’essere donna, apprezzando - mi pare - l’ambivalenza della nostra fiducia nel “femminile divino”, che talvolta è solo un altro modo per considerare altra la donna, una sorta di emarginazione chic. E da queste riflessioni, che buttano sensatamente sul personale, scaturiscono momenti illuminanti e labirintici come All the Way Down, una canzone su come entrare in contatto con i propri desideri profondi sia liberatorio ma anche spaventoso.
Anche se è un EP, devo consigliarti in modo inconfondibile di ascoltare No Separation degli MSPAINT: la band del Mississippi fa musica pesa e incazzata che porta dentro di sé qualcosa dell’epoca del rap rock ma con nessuna delle sovraproduzioni opulente che affondarono ben presto quel genere, e questo lo senti subito nelle linee di synth (Wildfire in particolare, ma anche Surveillance) che non addolciscono ma al contrario amareggiano il dettato timbrico, dando una rigidità grottesca al pestare del flow vocale e della batteria che però non suggerisce pessimismo, nichilismo, stasi ma al contrario una voglia di catarsi (il bridge della title-track e Angel te lo fanno proprio sentire). Sicuramente sto dimenticando qualcosa mentre ti dico che non c’è nulla che suoni come loro, ma questa è la sensazione ogni volta che sento un progetto degli MSPAINT.
Qualche giorno fa mi è capitato sott’occhio un video di un qualche guru del marketing musicale che diceva “o sei un artista concettuale, o sei un artista autentico”, o una roba del genere, per poi procedere a spiegare che le popstar sono artisti concettuali e dimostrando ancora una volta che non abbiamo idea di cosa significhi autentico. Ci ho pensato notando come Pitchfork dica che Something Beautiful di Miley Cyrus è “un concept album senza concept”: bella frase, che riprende un’intervista di Miley ad Harper’s Bazaar che, evidentemente, non è stata capita. Il concept del disco è “suonare bene, far stare bene con il suono”, e questo riesce al 100% nonostante (e non grazie a, mi permetto di dire) la massa enorme di musicisti indie che viene chiamata a suonare, scrivere, contribuire, da Danielle Haim ad Adam Granduciel, da Brian D’Addario dei Lemon Twigs a metà delle Alvvays: il fatto che si sia evitato un gran pasticcio con tutti questi cuochi è già un mezzo miracolo. Non è sempre songwriting stellare (anche se fare le pulci ai testi mi sembra crudele), ma se l’obiettivo era attingere alla bellezza del passato, senza feticismi sistematici, ma come a un buffet di reference (tipo i Fleetwood Mac di Rumors in Easy Lover), ci siamo eccome: le canzoni non vogliono vivere oltre l’ascolto, non ambiscono a spiegarti la vita ma a farla scintillare per cinque straordinari minuti. Come nel giro di accordi del ritornello di Walk of Fame, un pezzo che nel suo essere disco-rock non ha nulla da aggiungere alla storia della musica, ma che per trenta secondi ti fa sollevare di due centimetri da terra. Disco ottimo, che fallirà splendidamente.
Una delle cose che facevano funzionare davvero i Low, e li rendevano semplicemente un sodalizio musicale splendido oltre gli alti e i bassi di una discografia comunque quasi impeccabile, era l’armonia. Non intendo quella di coppia di Alan Sparhawk e di Mimi Parker, ma proprio l’armonia a due voci: in questo senso, finché Mimi ci ha fatto la grazia di stare su questo pianeta, i Low hanno dato il meglio quando hanno preso due cose e ne hanno tirata fuori una. Per questo, seguire la carriera del vedovo fa particolarmente male, nonostante il suo disco elettronico e un po’ folle dello scorso anno non fosse brutto. Ma Alan Sparhawk with Trampled by Turtles è un disco spettacolare perché, di nuovo, Alan si permette di incrociare la sua musica con quella di qualcun altro, la fa risuonare e riverberare: in questo caso si tratta di un gruppo bluegrass della sua città, Duluth in Minnesota, amici di vecchia data con cui Alan armonizza alla grande e tira fuori tutte le orme di tradizione che stava nel suo modo di scandire gli spazi tra note in una melodia, intervalli che la lentezza dello slowcore ti permetteva di assaporare. Anche qui i tempi non sono esagerati (tutt’altro che bluegrass, insomma), ma il passo svelto di Too High mi ricorda la prima volta che ho ascoltato i Low, ai tempi del disco The Great Destroyer, che alla critica non piacque troppo ma a me sì. Quella storia non si esaurisce: Not Broken fu iniziata da Sparhawk con Parker, e ha la voce della loro figlia Hollis, e questo fa venire il brivido se li hai seguiti e gli hai voluto bene per un po’; ma anche senza questa conoscenza pregressa, anche senza volersi per forza di cose inserire nella fotografia di qualcun altro, il modo in cui le loro voci si incontrano rende ancora più dialettica la sua struttura, e ti fa capire perché è così bello cantare e suonare (almeno) in due, anziché fare tutto da soli. Not Broken sostituirà Stranger nella playlist di fine anno, perché è una delle canzoni migliori che sentirai per il resto della tua vita, ma nella New Music Pucci è già stata inserita e riverita l’ultima volta, quindi a questo giro per la playlist scelgo la placida Get Still e ti invito a bagnarti le guance di lacrime.
Un paio d’anni fa qua era tutto post e trans-umanismo (devo sempre andare a rivedermi un video di Philosophy Tube per ricordarmi la differenza), e Softscars di yeule era uno dei dischi che parlava di questo oltre in modo più avvincente e musicalmente interessante (se si parla di revival nu metal adesso, pensa arrivarci nel 2023!): Evangelic Girl Is A Gun il nuovo album dell’artista di Singapore è “oltre quell’oltre”. Sarà che a un certo punto ci siamo accorti che tutte le narrazioni sul futuro cyborg e gli accelerazionismi innocenti erano stati dirottati dai peggiori pezzi di merda della storia, sarà che andava così. E quindi, con l’aiuto di una serie di produttori fighissimi nella produzione di un pop d’avanguardia (A.G. Cook, Clams Casino, Mura Masa che c’era già due anni fa) Nat Ćmiel si concentra più sull’umano, e forse cerca un modo anche meno astruso di rivisitare le sue fonti (il beat di Tequila Coma, all’inizio, è purissimo Massive Attack; Dudu sembra il parto di un pomeriggio pigro su MTV nel 2002). Le canzoni di yeule ruotano sempre intorno a domande di identità e connessione (chi sono? come resto nella memoria degli altri?) ma stavolta si dice chiaramente “don’t go on your phone” (The Girl Who Sold Her Face) perché il pessimismo sullo stato attuale delle relazioni umane e digitali è tangibile. C’è qualcosa, quindi, di veramente vulnerabile nel modo in cui queste canzoni si concedono dolcezze quasi ingenue (1967) o grottesche ipersaturazioni deftoniane (Skullcrusher), fluttuando senza indugiare in una singola estetica se non quella del reame digitale dove dobbiamo cercare di trovare una nostra verità più vera - come l’immagine della pistola che, se ci pensi, nello spazio di una vita online (il videogame) è meno spaventosa di una parola calunniosa, per esempio, sovvertendo la gerarchia del reale. Il che rende l’ascolto meno coerente e il concept forse un po’ confuso, ma sticazzi: la title-track (già segnalata) è una mina; Saiko è un bel dreampop digitale con un refrain zuppo di malinconia. Tieni, piangi, che nessuno è perfetto.
Sarà che sto invecchiando e sto diventando più tenero, ma il primo amarissimo e pieno di hype album solista di Matt Berninger mi era sembrato un disco immaturo, auto-indulgente come tanta roba degli ultimi National: questo secondo Get Sunk, invece, mi piace molto di più. Parte con una ballad placidona che gioca proprio sulla vastità della propria vita interiore, prendendosene un po’ gioco (Inland Ocean) e prosegue su una strada simile a livello di tempi (calmi), di armonie (con molte aperture) e di timbrica (con batterie di cartone, molti piani e tastiere). I singoli (in particolare Bonnet Of Pins) erano molto buoni, ma ti segnalo anche il recitativo di Nowhere Special e il finale quasi-country-rock Times Of Difficulty. “Se non stiamo morendo cosa stiamo facendo?”, si chiede un uomo ormai più che adulto su questa traccia, meditando sul passare del tempo con curiosità più che con rassegnazione: stiamo facendo cose forse insignificanti se messe sullo stesso piano delle stelle e dell’universo tutto, ma le facciamo con amore.
Sette anni dopo il loro primo album, tornano i Foxwarren di Andy Shauf con 2 (altro titolo numerico) e non c’entra nulla o quasi con il primo, nel senso che è un disco sì dolcissimo e trasognato, ma tutto groove e sample che - dice Shauf - ha MF Doom tra le fonti di ispirazione. Un disco di psichedelia dondolante, con una tracklist intervallata da frammenti di dialoghi di vecchi film, con tutta l’enfasi che gli attori di una volta mettevano nelle loro interpretazioni e di cui invece le morbidissime cazoni, talvolta sinfoniche, talvolta funky, fanno da catarsi al contrario. Che poi sembra chissà che viaggio fine a sé stesso, mentre Yvonne è una canzone piena d’amore e dolcezza per quella che sembra una cartomante televisiva: insomma, c’è della pura e invidiabile stranezza in queste chitarre vintage, in questi accordi di settima svolazzanti e in questo mid-tempo drugo.
Il post-punk degli australiani CIVIC tende al dritto-e-senza-fronzoli, lasciando all’ascoltatore di trovare le sfumature: Chrome Dipped sembra il loro primo progetto più sottile, meno esplosivo, ma ha i suoi momenti affascinanti, specie dove la tensione non sfocia mai e diventa adorabilmente frustrante (Starting All The Dogs Off).
A proposito di invecchiare con grazia (come argomento lirico, ma anche proprio come scelta di vita), Black Hole Superette è un altro eccellente disco di Aesop Rock che parla proprio di questo. Il rap astratto, come si dice del genere di hip-hop di cui è pratico questo vero maestro della rima, sembra sempre una questione masturbatoria (e va detto che l’ultimo LP di Aesop era una riflessione sulla tecnologia obsoleta), ma la profondità della sua scrittura sta nelle osservazioni a proposito della vita, spesso massime agrodolci, che estrae dalla sua vista di precisione millimetrica. In questo disco, ancora autoprodotto con gran gusto tra synth da fantascienza anni ‘80, grancasse megariverberate e campionamenti rari, il quasi 50enne si barcamena tra le gioie della vita domestica, ricette di salsa rinchiuse in cassaforte, il sapore delle pere raccolte dal suo orto, pulizie di casa e spese da Costco: fare queste cose non è una riduzione se hai l’occhio di Aesop Rock, anzi, è un altro modo per andare a squadernare la quotidianità; con il vantaggio di portarsi dietro un messaggio non angosciante, ma consolatorio, che non finiscono mai le storie da raccontare e viaggioni da farsi. E così cacci fuori una canzone notturna praticamente perfetta come 1010WINS con gli Armand Hammer; così metti in fila le rime allucinanti di Send Help; così hai la coscienza di riflettere sul tempo con la lucidità commovente di Black Plums in cui paragoni la tua vita al ciclo di maturazione annuale delle prugne; così tiri fuori lo storytelling autobiografico di John Something sull’incontro extracurricolare al liceo con “un certo John” che gli ha fatto scoprire il documentario sull’incontro Ali-Foreman When We Were Kings. Per me la musica è guardare dentro la testa di un’altra persona, e il buon Ian Bavitz spalanca la porta, accende una candela, mette su qualche disco raro e magico, e mi dà il benvenuto. Forse il disco rap più denso e anche più divertente del 2025, per ora.
Due anni fa il figlio di Ben Kweller, Dorian, è morto in un incidente stradale a 16 anni di età. Cover The Mirrors fa i conti con la vita dopo una tragedia così devastante con la grazia di una sinfonia pop, facendo davvero ogni sforzo per guardare avanti, per non fare sì che una morte senza senso si porti via anche altre vite: c’è una tristezza di fondo davvero ineludibile, ma anche tanta felicità in potenza, in queste canzoni che - non a caso - sono piene di amici. Tipo Waxahatchee in Dollar Store (per me una delle canzoni più belle degli ultimi 5 anni), o i Flaming Lips in Killer Bee che ha un distico (“canterei ogni parola se solo potessi, ecco cosa succede a essere incompresi”) che descrive esattamente il modo in cui funziona un cervello come il mio, non so te. Difficile non finire a singhiozzi sapendo che Trapped è una canzone scritta da Dorian che il padre ha voluto completare, ma la missione finale è riscoprire la luce e non crogiolarsi nell’oscurità (Don’t Cave). E per farlo puoi lasciarti incantare dalla semplice, quasi artigianale, bellezza di questo pop, che talvolta cerca esplicitamente di scioglierti il magone (Depression) a volte in modo quasi forzoso (Optimystic). Consiglio il terzinato Elliott Smith-esco di Letter To Agony e il finale con MJ Lenderman, Oh Dorian.
Almost Static dei Keep dalla Virginia è un graziosissimo disco shoegaze, e non dico altro perché siamo già molto lunghi: Fun Facts te l’avevo già consigliata, New Jewelry che ha lo scintillio riverberato delle chitarre di un pezzo dei Cure era Disintegration è un’altra perla da non perdere.
Ci ricordavamo di Shura come di una sofisticatissima artista synth-pop, ma dopo un periodo di depressione e ansia partito durante la pandemia si è trovata a cercare altro, altri suoni, altri luoghi, e a meditare sulla responsabilità di chi lascia gli altri per strada: I Got Too Sad For My Friends, terzo disco dell’inglese, è decisamente meno elettronico per non dire che è proprio chamber pop e indie folk fatto di legni e avorio, stagno e vetro. Le prime due tracce e America hanno fraseggi a solo del clarinetto che sono una delizia, e dovrebbero essere più di moda. Triste e meditativo, ma con alcuni sprazzi di vita che a volte funzionano (World’s Worst Girlfriend) e a volte no (I Wanna Be Loved By You), questo disco è piacevolissimo da ascoltare proprio perché mescola le carte, si misura con due bravissimi artisti ospiti che sanno il fatto loro in materia di malinconia (Cassandra Jenkins nell’eccellente Richardson e Helado Negro nella ancheggiante e soul If You Don’t Believe In Love). Una chicca.
Istruzione semplice. Se senti qualcuno, anche in una conversazione origliata per caso, chiedere in modo retorico la domanda “ma che fine ha fatto il rock?”, tu avvicinati e rispondi: “Ty Segall”. Il nuovo disco del musicista californiano, Possession, è pieno di canzoni che girano come una maratona di biglie di vetro sul linoleum, a partire dalla psichedelica, saltellante Shoplifter che si chiude con una serie di armonie vocali che sono deliziose (ne avrai sentite tante in questi giorni dopo la morte di Brian Wilson, ma non fartele mai bastare). Non credere che sia tutta una minestra riscaldata di rock anni ‘60 e ‘70, perché ci sono sensibilità assolutamente contemporanee dentro la trama di queste canzoni: il beat sincopato della batteria di Buildings è la dimostrazione che come ai tempi di Beck così oggi la California può far sciogliere stili e generi dentro un bel groove solare (Another California Song, guardacaso, sembra venire dalla stessa fonte); Shining ha la distorsione e la cavalcata di chi non ha ignorato cosa sta accadendo nel rock psichedelico australiano di oggi. Poi, certo, tutto si riconduce a fonti comune - sarò il millesimo a scrivere che il riff di The Big Day ricorda Ziggy Stardust. E grazie. Ma se metti da parte questa noiosa aritmetica e topografia della musica, arrivi al nocciolo del discorso: fare musica è una figata che ti fa sentire sovrumano, e partecipare a questa estasi è un rito che non smetterà di attirarci. Gasone.
Paradise Now del nigeriano Obongjayar è un disco adorabile e inventivo, che passa dal ritmo frenetico del Singeli dei rave di Dar Es Saalaam (Talk Olympics con Little Simz) al dance-punk funky ammiccante di Not In Surrender sfiorando con estremo gusto e leggerezza alcune delle declinazioni più sofisticate dell’R&B e dell’afropop a disposizione, senza dimenticare di fare qualche tappa nella dancehall. Non è uno di quei progetti che emozionano i critici, forse, ma è spassoso, energetico, con qualche punta di amarezza (Born In This Body) che comunque risolve in una perla di luce. Un disco per l’estate se mai ne ho sentito uno.
Undercurrents è il primo disco di inediti di Matthew Young dagli anni ‘80 - i suoi due dischi furono ripubblicati una decina d’anni fa, ma niente di nuovo perché lo sperimentatore del New Jersey si è dedicato poi al graphic design e ad altri progetti: ma questa collezione che tiene insieme sia il suo folk d’avanguardia sia la sua elettronica a bassa intensità sembra quasi un compendio di quelle storie interrotte: qui trovi le sue divagazioni sul dulcimer, quello strumento a corde da percuotere con martelletti che genera un suono molto ritmico oltre che melodico (e armonico, considerando la risonanza delle corde), e quindi si presta bene a interpretazioni di minimalismo alla Steve Reich (il finale Into The Woods è un bell’esempio, qui); ma ci trovi anche le sue ballate spettrali, lo-fi (The Summer Girls). E in mezzo, nel tuo cervello, si apre lo spazio per meditare ma anche per lasciarsi dondolare.
Normalmente il venerdì scrivo qualcosa sulle nuove uscite sul gruppo Telegram o nella chat di Substack. Vieni a leggere.
Altri dischi di cui non c’è veramente tempo di parlare: Wine Picture di Will Epstein e Dave Jarrington (scenette strumentali chitarra, sax, percussioni e disastro); l’EP eponimo del supergruppo Demise Of Love (industrial rovente); l’EP di Illuminati Hotties, Nickel On The Fountain Floor (indie rock confuso, di qualità altalenante); l’EP Baby Names degli irlandesi ma londinesi Kissing On Camera (shoegaze+emo enfatico eppure nebuloso, di pancia eppure figoso).
🇮🇹 Italodischi 🇮🇹
Fumo dei Casino Royale è semplicemente uno dei migliori dischi dell’anno (il suo posto è riservato, a fine 2025). Messo in sequenza come un solo discorso, come un unico super mix dub da bere in un lungo sorso, questo album si interroga su una domanda che - l’avrai notato - mi sta frullando molto in testa ultimamente: cosa è vero e cosa no? Il fumo è un segnale, ma è anche un’illusione, o la testimonianza di qualcosa che brucia sul serio: la risposta del gruppo milanese è che non puoi sapere a prescindere quale fumo hai davanti, che devi valutare caso per caso. Oltre alla cura estrema per il suono (i riverberi sembrano venire da enormi hangar; i breakbeat jungle non sono indulgenti e le tastiere sono immani; le voci ospiti Marta Del Grandi e ALDA sono due stelle; un applauso proverbiale al co-produttore Clap! Clap!), mi piace che nel mezzo di questo viaggio notturno delirante ci sia un pezzo come Siamo chiunque siamo, che mi aiuta a leggere quell’ansia per la definizione di cosa c’è davvero dietro il fumo non come una paranoica caccia alle streghe, ma come una genuina ricerca di un’umanità, nel senso anche di un gruppo che rompa le trappole dell’individualismo (Vittima e assassino). Un capolavoro fatto di leitmotiv, di ricorrenze linguistiche (ombra, incendio, assassino), che ti avvolge in un trip hop dove la distopia non è più un luogo ma uno stato dell’animo, una visione quotidiana, una lotta interna (Odio e oro). Magico.
Merli Armisa è uno dei molti talenti straordinari che stanno uscendo dalla Valtellina in questi anni. Per il suo secondo lavoro, Ortensie comete, il musicista e cantautore di Sondrio dice di essersi ispirato ai suoni del dub rock giapponese dei Fishmans e di Cornelius (due nomi che potresti riconoscere se hai letto il mio profilo-monstre su Ichiko Aoba) o il rock sperimentale fatto di collage e frammenti di Susumu Hirasawa, che nei dischi degli anni ‘90 o nella colonna sonora di Paprika assemblava musica in una maniera che suona ancora incredibilmente viva, istintiva, stupefacente. Merli Armisa riprende questi discorsi in modo appropriato, come molta musica a metà fra dream pop, lo-fi e indie sciallo ha fatto (consapevolmente o meno) negli ultimi anni - mi viene da citare il disco di qualche mese fa di quickly, quickly - e si rifà anche allo shoegaze coreano (l’amato Parannoul) che mi sembra presente anche per lo sfacciato e onesto sentimentalismo. Al di là di questi discorsi noiosi di collocamento, questo disco suona come un presente disgregato, inafferrabile, rimpianto, in cui una voce (della bravissima Arianna Pasini) che canta “tu sei quii con meee” sembra il fantasma di una presenza che non si dà. Lo trovo estremamente affascinante, mirabilmente triste e a suo modo davvero magico: in quale altro modo si potrebbe descrivere la coda strumentale di astro del cielo, che ti casca addosso con il friccicore di mille stelline? Fai un giro nei suoi arpeggi buttati al vento, e non distinguerai più tra realtà e sogno.
Dei Laguna Bollente ti scrivo da un po’ e ti segnalai il lato A di Fanta Sbocco quando uscì ad aprile: il duo veneto fa un post-punk tagliente ma non cinico, che riesce a descrivere in modo accurato la fabbrica di non-senso che è diventata questa nostra vita post-post-moderna. Quando Dunia Maccagni canta “Madonne decapitate alla fermata del tram” (Glitter) sembra che stia lanciando una blasfemia anziché osservarne una. E questo cortocircuito è quello che domina buona parte dei testi surreali (“mi fumo un caffè”) e impertinenti (“Mammuccari io ti pesto a sangue fuori dalla Coop”) dei Laguna Bollente: non basta ammirare il dolore e la follia della realtà, bisogna avere il fegato di navigarla, di innamorarsi della “celestiale bestia” che vi si manifesta (Facciamo basta) di provare a cercare una via d’uscita dentro il grottesco, dentro ciò che rimane sempre uguale e però non deve invitarci all’apatia. Canzoni che non strappano ma sono semmai un prolungato strappo di un cerotto, e ti donano un’insana speranza nel lato più strambo e orrendo delle nostre intelligenze. Una cura contro “il malanno dei poeti maledetti che stracciano i coglioni” (Delle regole), “contro i tramonti” (Un’astrazione…): non per inaridire le nostre immaginazioni, ma per immaginare nuove strade per emozionarsi. Fighissimi.
Ananke di Nicolò Carnesi è un delizioso disco di pop alternativo e cantautorale che ambisce a giocare non solo con le parole ma con i suoni: imbevuti completamente di mitologia classica, i testi di queste canzoni scintillanti usano quel repertorio di storie come patrimonio folk più che come ascendenza letteraria, e questo toglie tutto il peso marmoreo da una tradizione che dovremmo sentire nostra anche senza retorica (specialmente ma non solo se si viene dalla Sicilia, che di tanti miti è terra originaria). Avevo già inserito Orfeo in playlist, e qui sono indeciso tra Narciso e Amore e Psiche, che di parole non ne ha proprio ma ha uno sviluppo narrativo che ti porta a spasso. Onirico, acquatico, leggerissimo, un vero piccolo capolavoro che spero non si smarrisca tra la troppa musica che esce oggi.
Laughter dei mantovani a/lpaca è un bellissimo esempio di musica sballona che non vuole rilassarti ma mandarti in paranoia: voci filtrate da megafoni, chitarre che suonano come squilli di sirena, batterie che sciabordano come reti elettrificate, questo lavoro così curiosamente intitolato non fa ridere proprio per niente. Il che è corretto: “risate, bevute e chiacchierate son tutto quello che mi resta” (traduzione mia) cantano nella quasi-title-track, che spinge ancora più verso un noise organizzato e capitale (c’è qualcosa degli Shellac? Forse). Mi piacciono i synth spernacchianti di Brano Fantuzzi, mi piace il twee malato di Who Is In Love Daddy? ma il pezzo che ti suggerisco è il catastrofico e muscolare Empty Chairs, una scena di un film d’azione al termine della quale il nostro eroe crepa male. Bel viaggio.
Gli Hambone sono un trio di musicisti pugliesi da Molfetta che mescolano con grande gusto jazz e rock, afrobeat e elettronica minimalista: il loro omonimo esordio ha un pezzo, il pezzo, intitolato Biko che ti svuota le tasche e ti bagna il naso. Sax tenore, chitarra elettrica, batteria, qualche synth e il desiderio di catturare momenti: di stupore e di liberazione, di dolcissimo assopimento (Tane) e di fantasia totalizzante. Se gli dedichi una mezz’ora sentirai sette tracce intelligenti ed eleganti che ti portano via, se gli dedichi anche solo un riascolto vorrai andare a sentirli di persona.
FUORI MENÙ di Golden Years è un producer album e - come dicevo di Daisy sopra - io resto sempre indeciso su come valutarli: da una parte, l’ascoltatore normale segue con l’orecchio la melodia, il testo, il mood che però sono dettati all’80% da chi canta; dall’altra, possiamo fare un discorso sui suoni (qui c’è tanto groove anni ‘70 tra disco e cantautorato (Battisti, D’Angiò, Carella, Daniele) e un R&B vellutato che a casa mia non è mai fuori moda. Quindi è molto carino, certo, ma non mi smuove anche perché tutto sommato contiene la solita dose enorme di storie d’amore immature. Eppure, tra le molte lanugini dell’ombelico, si trovano alcune perle: Signorina Ciao con Drast e faccianuvola; Morena con Sano e Tutti Fenomeni. E poi Anche se ti amo, che in un paese migliore sarebbe la hit mainstream un po’ inquietante su cui puntare tutti i propri spiccioli.
Di Tutto Piange avevamo ascoltato già Garageband, il suo secondo singolo che ti consigliai l’anno scorso. Il suo primo EP, Dei giorni passati a guardare, raccoglie questo e gli altri due singoli (Non è divertente e Bagno) e lancia ufficialmente quest’artista della 42 Records con due begli inediti, specie il finale che mi ha mandato vibrazioni a metà fra Bright Eyes e Laurie Anderson, se è possibile: diamo il benvenuto a una musicista che nelle sue canzoni piccole e accartocciate mette tante idee e tanto sofisticato carisma indie pop.
Just the way we do è il nuovo disco del duo romano The Shalalalas, che tornano dopo un po’ di pausa in uno scenario in cui dream folk e indie pop sognerello hanno un nuovo spazio per accomodarsi nelle coscienze. La canzone che apre il disco, It’s Time, devo ammettere che mi ha accompagnato più di quanto non immaginassi. L’album contiene cinque canzoni rivisitate del loro repertorio, variamente reinterpretate (tra queste Let’s Shalalala che nel primo EP era strambo-acustica ora con i Bengala Fire tira fuori una natura garage rock che sembrava essere sempre lì acquattata; Me and Terry che nel primo disco di 10 anni fa era ridotta all’osso qui con Aurora D’Amico diventa un botta e risposta sciallo-rock con quello che sembra un assolo di violino elettrico davvero mega 90s): come a dire che quest’eredità minore di meditazioni sull’innamoramento e l’amicizia e la voglia di sognare hanno ancora un valore, sono un passato da riscrivere oggi. In playlist metto Song For Mara, per dondolare all’infinito.
Devo ammettere che sono arrivato tardi a EMMA e al suo industrial hyperpop estremo, melodrammatico: Era l’inizio dovrebbe essere l’ultimo di tre dischi (dopo Era ed Era la fine, che recupererò). Questo disco, comunque, mi ha intrigato perché non molla un secondo. Per descriverlo userò quest’immagine: suona come un brutto caso d’insolazione, con il cervello tecnicamente ancora funzionante ma immerso in un brodo di illogicità. Il glitch non è soltanto un elemento della palette sonora, ma è il simbolo di una scrittura di taglio e cucito, l’editing successivo che anziché portare calma e riflessione introduce solo nuova angoscia, nuova tenerezza morbosa, nuova assurdità. c 666 tu, con i suoi quattro minuti di variazioni sul tema, di aperture e chiusure, di cavalcate ed esplosioni, è una delle canzoni italiane meglio riuscite dell’anno. Sarò arrivato tardi, ma son contento di aver recuperato. (Non è un disco italiano, ma se ascolti EMMA e ti va di continuare a sentire qualcosa di futuribile e catastrofico c’è il mixtape di kuru, Stay true forever di cui ho inserito un brano in playlist).
Computer Music Before AI Supremacy di P41 (al secolo Edo Pietrogrande) è un disco il cui spunto è interessante: fatto interamente al computer, con suoni generati nei plugin della digital audio workstation, in uno spazio interamente virtuale, questo lavoro vuole segnare la differenza tra la “computer music” prima e dopo l’arrivo dell’IA generativa, rivendicando la libertà di comporre con il minimo possibile di scorciatoie creative, usando potenzialità e limiti della composizione e produzione interamente digitale, anziché cercare di scavalcarle. L’idea è che tanto il groove “organico” quanto la frammentazione aliena, tanto il timbro dolce quanto quello abrasivo stanno prima di tutto nella testa di chi vuole tirarlo fuori da una macchina (PC o meno), e che l’arte sta nella fatica di estrarre questo suono, letteralmente la poiesi del suono, e non nella capacità di descriverlo a parole. Detto ciò, non ne so abbastanza per giudicarlo sullo sfondo della storia IDM nel suo complesso, ma devo dire che nella sua varietà di mood, nel suo essere brillante ma non laccato, astratto ma non impenetrabile mi è piaciuto.
📖 Per finire 📖
Forse è meglio non aggiungere altro a questo lungo pippone su una trentina di dischi ed EP usciti ormai più di un mese fa. Abbiamo i dischi dei Turnstile, di Lorde, delle Haim, di Annahstasia e un altro po’ da recuperare. Vedrò di farcela in tempi ragionevoli e di presentarti anche i dischi migliori della prima metà dell’anno.
Se invece vuoi sapere perché nessun aspirante tormentone sembra funzionare quest’estate, te lo spiego su Fanpage.