Il "caso Lorenzza" è un paradosso
La discografia che fa la discografia va bene, tutto il resto va male
Forse non lo sai, forse vivi benissimo senza saperlo, ma questa settimana nella parte dell’internet italiano più interessato alla musica sono girate moltissimo due parole, che forse meritano un po’ di contesto: le parole sono “industry plant”, e chi le ha ripetute e sparse nell’etere attraverso una miriade di TikTok e commenti su YouTube e Instagram le stava dedicando a una persona in particolare, di cui ti ho parlato nell’ultima Pucci Weekly (vedi sotto). Mi riferisco a Lorenzza, nuova artista dell’etichetta Sugar Music, che ha prodotto e distribuito con Universal Music il suo debutto discografico, intitolato A Lorenzza.
Questo esordio ha scatenato un piccolo scandalo per il panorama italiano. E lo scandalo partiva principalmente da questi tre argomenti:
come ha fatto ad avere tanti follower su Instagram prima ancora di aver pubblicato una singola canzone?
perché Sfera Ebbasta l’ha “propsata”1 dal nulla quando “non ha nemmeno fatto una Story per suo fratello DrefGold”?
come ha fatto ad avere sul suo primo disco tre pezzi grossi del rap italiano come Rkomi, Nayt e il produttore The Night Skinny?
In sostanza, chi è questa Lorenzza, da dove viene e quali santi in paradiso ha per essere già così in hype? Parliamone, perché credo che questa crisi stia tirando fuori il fondamentale analfabetismo mediatico di un mercato (nel senso di pubblico e parte della critica) cresciuto nei numeri ma non nella competenza. Ma anche un problema di fondo con il sistema che abbiamo accettato, pur di far andare avanti l’industria discografica.
Industria
Qualche giorno fa discutevo con un amico e lettore di questa newsletter che mi rimproverava di aver utilizzato il termine “industria” per definire la discografia (le etichette, gli artisti e i professionisti che ne fanno parte a vario titolo), accusandomi bonariamente di aver usato un prestito che non funziona bene. Ed è vero che la mia abitudine a chiamare così questa cosa proviene dalla lettura prolungata di media in lingua inglese. Ma è anche vero che questo concetto non è nuovo. Prendi, per esempio, questa parte della pagina di spettacoli de La Stampa del 1977, dove si parla di artisti, di trend e di pura e semplice produzione (materiale) dei dischi.
Che la musica sia un’industria, insomma, si sa da sempre. E l’attuale fase espansiva del mercato, spinta in modo probabilmente innaturale dalle piattaforme di streaming, non fa che consolidare questa visione: abbiamo prodotti e progetti; chiunque è consapevole di cosa significhi un lancio; per non parlare dell’ossessione (anche presso il pubblico, cosa veramente nuova) per il risultato commerciale di questo o quel disco, che con grande prontezza viene chiamato flop. E qui abbiamo una prima contro-argomentazione: a meno che uno non frequenti per passione soltanto musicisti di strada2 o non ascolti soltanto compositori strettamente finanziati da istituti pubblici di ricerca culturale, chiunque deve fare i conti con l’idea che tutta la musica che consuma è frutto di un’industria. Può essere una sezione piccolissima dell’industria, ma anche un artista 100% indipendente che si trova da solo le date negli ARCI sta accedendo a un circuito commerciale ben preciso; anche una band che pubblica da sola la propria roba su Bandcamp e stampa in modo artigianale qualche dozzina di copie (ma chi lo fa, oggi? nessuno, perché nessuno ha più il lettore CD) sta partecipando al mercato; per non parlare delle label indipendenti, che - giustamente - operano equilibrando principi etici-artistici con le necessità del sistema capitalistico e le realtà della comunicazione digitale odierna. Insomma, tutto è industria. Ma questa spiegazione è solo un antipasto: calciare la palla in tribuna non cambierà la testa della gente. Quindi andiamo sul caso specifico.
Chi è Lorenzza
Non lo so, personalmente, chi sia Lorenzza. So dagli articoli che ho letto prima dell’uscita del disco che è nata in Brasile ma è cresciuta a Pisa3. So dai credits delle canzoni che i suoi cognomi sono Lacerda Campos. So da questo TikTok che il suo manager è anche il CEO di Esse Magazine (e su questo torniamo alla fine). So da un’intervista al Corriere che ha avuto una vita complicata. So che della sua ascesa verticale ci si è cominciati a interrogare da subito: un articolo su Cosmopolitan a fine agosto già parlava dell’accusa che le era rivolta di essere una “industry plant”. So che a settembre aveva realizzato un “freestyle” di quelli che Esse Magazine pubblica sul suo canale YouTube. So che dall’estate erano cominciati a uscire sul suo profilo Instagram una serie di reel realizzati con una regia, uno styling e un montaggio di ottimo livello. So che a ottobre ha aperto a Bologna una data del tour di un’altra promessa del rap italiano, la svizzera Ele A. Fin qui, mi sembra, nulla di strano nel copione: una giovane persona, interessata nel genere musicale che sta dominando il mainstream italiano, trova uno spazio maggiore grazie agli agganci giusti e si fa vedere e sentire, finché non esce il suo primo progetto.
Dov’è il problema, quindi? Secondo gli Arcade Boyz (…) un problema per esempio è che il pubblico non ha sentito niente se non quei quattro teaser usciti sui social. Non c’è stato un singolo di lancio, insomma: l’artista ha debuttato direttamente con un EP che - se ho capito bene - è stato ampliato a LP una settimana dopo4, ma in ogni caso con un prodotto che critici anziani definirebbero “sulla media o lunga distanza”. In pratica, la critica sarebbe che Lorenzza non ha rispettato una regola non scritta dell’industria (presentarsi con dei singoli prima di un LP), e per questo è una marionetta dell’industria. Ma il debut single (il primo singolo che viene fuori così a caxxo, senza promettere nulla in più), così come anche il lead single (il singolo che promette l’arrivo di un album, di cui spesso condivide la grafica in modo più o meno esteso), non sono altro che il residuo di una concezione industriale di altri tempi.
Prima, con le lacche (i dischi a 78 giri di tua nonna con le arie di Giuseppe Verdi) pubblicare molta musica su un supporto fisico era tecnicamente impossibile: i vecchi dischi fonografici contenevano tra i 3 e i 5 minuti per lato, uno standard che ha lasciato l’impronta su quello che percepiamo come una durata normale, ma che è soltanto conseguenza di un limite tecnologico invalicabile - e non è la sola convenzione che ci portiamo dietro da cento anni5. Poi, quando negli anni ‘40 è arrivato il PVC e si è introdotta la tecnica del microsolco si è riusciti a concentrare più musica su supporti più piccoli (dai 10’’ dei 78 si è scesi ai 7’’ dei 45 giri) o addirittura intere opere su un solo disco grande (i 12’’ del 33 giri). Ma la consuetudine del singolo brano sul singolo lato e il contemporaneo calo precipitoso dei prezzi di produzione con il vinile hanno fatto sì che un artista o una band al debutto si meritasse prima un giro di singoli, molto economici da stampare, e poi eventualmente un album vero e proprio, che peraltro a lungo non è stato altro che una raccolta dei singoli già pubblicati. Insomma, quella convenzione aveva molto senso ai tempi dei Beatles e di Pino Donaggio, ma oggi ci si muove diversamente.
Oggi un singolo di debutto può essere una buona idea se si sta cercando la direzione per un nuovo artista. Ragionano così - presumo - le discografiche perché di fatto è così che ragionano anche gli artisti indipendenti: con le poche risorse che hai, puoi rendere pubblico un pezzo (su SoundCloud o direttamente Spotify con servizi di self-releasing come Amuse, Distrokid, CD Baby, etc). E poi, stare a vedere. Se piace, magari farai un’altra canzone come quella; se no, magari cancellerai tutto e cambierai stile, nome, identità6. Tutto questo è normale e, anche con due euro in tasca, si tratta di un processo industriale. Normale, ma non obbligatorio. Ognuno sceglie il sistema che può o che vuole per entrare in questo enorme negozio virtuale, ma poi è sempre lì che si va a finire tutti e tutte. Ed è anche questo il problema: chi c’è dentro questo negozio?
L’ossessione “industry plant”
Sgombriamo il campo da un equivoco: l’ossessione complottista che considera “industry plant” un qualsiasi fenomeno di successo improvviso non è nata in Italia - del resto la parola potrebbe avertelo suggerito. Come ricostruisce Grant Rindner su Complex, il termine sembra aver preso piede nel 2012 dentro un thread del forum KanyeToThe, uno dei luoghi più importanti (e tossici) per la costruzione dell’immaginario, del vocabolario e del repertorio di nomi dell’hip-hop degli anni Dieci: da lì son venuti fuori i Brockhampton e JPEGMAFIA, Yeat e Jack Harlow - il quale peraltro ha ricevuto spesso l’accusa di essere un industry plant, ironia della sorte. La stessa dinamica di quel forum, al quale prendevano parte diversi aspiranti rapper, e talmente asfissiante da dover essere chiuso e riaperto (KTT2), lascia sospettare ragionevolmente che il termine non sia da considerare neutrale: non voglio usare l’argomento “rosiconi”, però è un elemento da conservare quando si pensa alla diffusione di quest’accusa. Anche perché i primi a ricevere quest’etichetta, là sopra, furono artisti semplicemente di successo come 50 Cent.
Allora è chiaro che la questione non sorge da una semplice domanda di realness: Fifty è sempre stato real, è sempre stato street. C’era qualcos’altro dietro: forse, a molte persone dell’ambiente non piaceva tanto il fatto che, con la diffusione globale dell’hip-hop, stesse venendo meno la capacità del singolo osservatore di tenere sott’occhio l’intero sviluppo della scena, e che la presenza di budget sempre più grossi (perché proporzionali agli introiti) potesse allargare le differenze tra un progetto artigianale e uno industriale. Di fatto, la comunità musicale tutta e rap in particolare era obbligata ad accettare che le coordinate produttive di un genere fino ad allora ancorato a molte dinamiche da sottocultura stessero spostandosi. Era iniziato tutto molto prima (Yo! MTV Raps va in onda sul canale musicale mainstream per antonomasia a partire dal 1987), ma la globalizzazione dell’hip-hop rendeva necessario adottare meccanismi industriali. Che non aderivano perfettamente, però, ai principi etici-estetici che avevano dato vita al fenomeno stesso. Con l’impressione di essere stati spossessati del proprio potere decisionale e tuttavia dotati per la prima volta di una piattaforma di comunicazione ad ampio spettro (un broadcast, in un certo senso, cioè internet) molti ascoltatori del rap hanno cominciato a vedere complotti dappertutto. E non sono stati i soli.
Qualche mese fa Kyndall Cunningham su Vox faceva proprio questo collegamento tra il complottismo, la cultura del trolling e le accuse di essere industry plant. Quello che vorrei aggiungere a quei preziosissimi ragionamenti è questo: il rap non è più una novità, ma è un’istituzione culturale e commerciale, eppure continua a comunicarsi secondo le parole d’ordine degli anni ‘70 e ‘80. Perché sono parole d’ordine che hanno una presa fortissima: il rapper è sempre outsider, una figura pericolosa che sfida l’opinione pubblica, nonostante da una quindicina d’anni abbondanti la sua forma di espressione sia la norma, il lessico e la grammatica di come si comunica nella musica ma pure nella moda e nella politica7. Da quando abbiamo cominciato a depositare sempre più volentieri le nostre identità su piattaforme media digitali, poi, la realness è diventato un concetto tanto vago quanto pervasivo: ci abbiamo fatto su un social, sull’essere real. Questo non poteva non andare a schiantarsi contro il concetto hip-hop della realness, un concetto che viene studiato con cura da almeno 25 anni e che è decisamente entrato in crisi nell’ultimo decennio, dove ogni elemento culturale è diventato un remix. “Nel contesto dell’estetica hip-hop, keeping it real è una necessità di autenticità artistica, la richiesta di essere onesti a proposito delle proprie radici, non un desiderio di realismo nell’arte in sé e per sé”, dice lo studio che linkavo prima. Essere the genuine article (un altro termine commerciale) prescinde non solo dall’infrastruttura industriale e promozionale, ma anche dalla pretesa che un testo sia al 100% una rappresentazione della realtà, valutata secondo le nostre (degli ascoltatori) aspettative: dire che non sta bene “avere un featuring su un pezzo che parla della sorella”, come ha detto qualche creator, è una completa fesseria, insomma, anche a prescindere dal fatto che la storia del rap italiano recente è strapiena di esempi di canzoni incredibilmente personali che contano guest spot (anche illustri, anche di esordienti lanciati sulla vetta dal nulla o quasi).
Ho appena pensato a questa battuta. Hegel entra in forum hip-hop, vede la gente accapigliarsi sulla realness e invita tutti quanti a usare più razionalità.
Scherzi a parte, è palese come l’incomprensione generale del contesto discografico e il desiderio della discografia stessa di mantenere una certa oscurità da una parte e approfittare della forza evocativa di concetti come la realness, siano gli ingredienti perfetti per un cortocircuito. Ma chi ha gli strumenti per capire come funziona veramente, e chi è incentivato a darglieli? Perché, invece, perdurano miti incompatibili con il funzionamento dell’industria discografica? Eppure, non è da oggi che si ragiona in modo strutturato.
Quando ho intervistato Emi Lo Zio per farmi raccontare la sua storia e quella della Dogo Gang, un principio è stato messo in chiaro da subito: la Dogo Gang era una compagnia di amici, sì, ma anche un team di lavoro che da subito doveva essere attrezzato per supportare la crescita dei Club Dogo e degli artisti affiliati, con l’obiettivo molto chiaro (e industriale) di portare alla sostenibilità economica e al profitto di tutta l’infrastruttura. Questo spirito è alla radice dell’hip-hop italiano per come viene inteso oggi dalla maggioranza delle persone, anche molte di quelle che si professano puriste: riscrivere le regole e spostare l’asticella quando si tratta di un’artista giovane è una mancanza di coerenza essenziale, o peggio ancora un segnale di ignoranza. Mettici anche che Lorenzza è donna, e come tante donne prima di lei - nel rap e no - deve fare i conti con uno scrutinio di partenza superiore a quello dei colleghi maschi: Cardi B e Billie Eilish, le Wet Leg e Clairo sono solo alcune delle donne che hanno dovuto farsi considerare marionette e al contempo manipolatrici, persone astute e privilegiate che magari hanno avuto solo la colpa di una parentela in vista, o qualsiasi altro straccetto di prova che un “investigatore” in rete possa credere di aver trovato. Intanto - come faceva notare, forse esagerando, Phoebe Bridgers - nessuno si sogna di considerare gli Strokes un progetto creato a tavolino solo perché un paio di loro aveva genitori molto ricchi e/o in vista nella buona società. Ma questa è la zuppa culturale in cui sono immerse molte delle nostre discussioni, dove la misoginia e il razzismo sono sempre più popolari. E i numeri sono la benzina che trasforma il brodo in un falò.
Che lavoro fa un’etichetta discografica?
Uno degli argomenti principali dei complottisti suona così: “come fa Lorenzza a non avere nemmeno un ascoltatore mensile su Spotify, ma ad avere decine di migliaia di follower su Instagram?”. Stiamo parlando di meno di 50mila iscritti, prima dell’uscita del disco, per la cronaca. Ora ne sono arrivati altri 20mila e spicci - mica male queste polemiche. La risposta è semplice: ce li ha perché i post che possiamo tuttora vedere sono stati molto probabilmente sponsorizzati, e anche bene visto che la quantità di interazioni è molto alta (oltre 13% di engagement rate, ai tempi in cui lavoravo con i social media, è un tasso eccellente). Insomma, qualcuno ha fatto il suo lavoro.
Non sono un investigatore di social, ma il suo profilo ha la pulizia di chi ha assunto un team per dare l’impressione che sia sbucato già armato dalla testa di Zeus come Atena: reel con una produzione video curata, perizia nella comunicazione, una linea editoriale, insomma, legata dal messaggio “piacere, mi chiamo Lorenzza, ho avuto un passato difficile, sono giovane, mi piace il rap e mi piace farlo; ascoltami”. Insomma, qualcuno aveva investito in lei prima ancora che avesse dei numeri da mettere sul tavolo, e ha creato intorno a lei (con il suo input, mi permetto di immaginare) una campagna di lancio che ne trasmettesse tutta la forza: un’etichetta ha creduto nel suo prodotto, e ha pensato di pubblicarlo con una campagna di costruzione del personaggio che si basasse sui teaser anziché sui singoli e sulla lenta costruzione di un seguito, passando da ospite in una dozzina di tracce altrui.
Non vorrei rovinare le indagini dei nostri Sherlock Holmes, ma questo è più o meno esattamente quel che una casa discografica faceva prima che nascessero: scovare un talento che non ha ancora pubblicato nulla e farlo crescere offrendogli tutto il supporto finanziario e comunicativo necessario, credendo nel progetto, mettendolo cioè nella condizione di spaccare da subito, senza troppi indugi.
Semmai, la storia qui diventa come sia stata scoperta Lorenzza: magari scandagliando i social e trovando video poi rimossi, prima che nessuno la conoscesse, per poi lanciarla in grande stile. Ma per scrivere questa storia bisogna fare domande piuttosto che dare risposte, e così non si va in tendenza - è chiaro a tutt* che dire “sto solo facendo domande e sollevando dubbi” non significa quello che vuol dire, giusto?
Insomma, tutto regolare, se sai due cose in croce sulla distribuzione di un prodotto. Anche musicale. Nulla di nuovo, solo che prima non si faceva con i social, si faceva con quegli strumenti obsoleti chiamati magazine. Faccio un esempio, dal 1969, che include più o meno tutte le caratteristiche finora elencate (mutatis mutandis):
In pratica, una casa discografica major investe denaro in un’inserzione pubblicitaria (equivalente al comprare boost per il traffico social, oggi, e su questo ci torniamo) invitando un artista di fama già solida per convincere il lettore ad ascoltare (cioè, comprare) l’album di debutto di questa band esordiente che aveva suonato il suo primo concerto appena sei mesi prima dell’uscita del disco. Non è così diverso rispetto a quanto fatto da Sugar/Universal per Lorenzza, a parte due differenze fondamentali nel contesto.
Diamo i numeri
Primo, il pubblico di oggi è molto interessato alla realness (più di quanto non lo fosse nel 1969, azzardo), perché questo è stato comunicato per anni, fuori tempo massimo, come un valore fondamentale e un criterio di qualità a prescindere: non che ci si sia presi la briga di istruire lo stesso pubblico a valutare la realness criticamente e oggettivamente, nelle label e nei media, perché fintantoché la narrazione fa comodo e non si creano intoppi, si può lavorare comodamente nei margini di ignoranza. Voglio dire che probabilmente anche l’artista più street e real che conosci ha trovato molto presto una struttura enorme, un budget, un obiettivo commerciale: magari è nato povero e in provincia, magari ha una storia personale difficile e magari ha iniziato a pubblicare canzoni in modo clandestino, e forse queste sono ancora online, e potresti essere una delle dozzine di persone che l’ha incrociato “prima del botto”; però il suo nome è girato veramente quando è diventato un progetto. Se ci hai fatto caso per Lorenzza, ti invito modestamente a interrogarti se non sia anche per colpa di una misoginia interiorizzata: quante volte le artiste donne sono raccontate da una parte del pubblico e della stampa come prodotti, come oggetti privi di autonomia di pensiero e di gusto, come marionette manipolate dai calcoli di marketing? Molto spesso, e questo è accaduto soprattutto per il pop (paternalismo dei paternalismi). Ma se capita anche nell’hip-hop sta accadendo qualcosa di profondo alla non-più-sottocultura, e bisogna fare i conti con questo prima che la conversazione diventi ancora più tossica.
Secondo, la metrica che usiamo istintivamente per determinare la popolarità, quindi la bontà, di un progetto è il numero di follower sui canali social dell’artista: guardiamoci in faccia, ci siamo cascati tutti. Allora, la domanda “da dove sono sbucate queste decine di migliaia al seguito di un’artista con zero ascoltatori mensili?” abbandona la distopia a cui dovrebbe appartenere, e diventa una questione tutto sommato solida. Vuoi la risposta? Sono sbucate dal budget di comunicazione delle label, che oggi non comprano più così tante inserzioni, e puntano piuttosto a dare il pizzo a Meta (questi sono, di fatto, i boost per trovare il pubblico di una pagina). Non servono strane manovre né loschi traffici, basta investire bene in contenuti e targetizzazione per trovare un seguito consistente, anche prima della prima release, da cui il numero nullo di ascoltatori su Spotify, perché è difficile avere ascoltatori senza canzoni… Chi lavora con Lorenzza ha pensato che il progetto valesse questo investimento di comunicazione, insieme e in tandem alla produzione dei video teaser per far salire l’hype, e credo che peraltro abbia fatto bene.
Ma non va tutto bene, per niente
Come dicevo su, “internet mi ha detto” che Endri Kalthi, il CEO di Esse Magazine ma anche capo dell’agenzia di management Cantera, sarebbe il manager di Lorenzza. E qui cominciano i casini. Abbiamo deciso di chiamare “testata” una cosa che non ha nessuno dei crismi del giornalismo, tra cui l’indipendenza e la trasparenza. Non sono un hater di Esse, anzi, sono felice che abbia propsato (ahah) il libro che ho fatto con Emi Lo Zio. Ma nel resto del mondo un progetto che di fatto lavora anche come ufficio stampa, un progetto che basa le sue economie sul denaro ricevuto da label e management di artisti per la promozione di questi ultimi, dovrebbe sempre avere la correttezza di pubblicare un disclaimer: vedi, ad esempio, tra il 2018 e lo scorso aprile, quando Uproxx pubblicava articoli o interviste su artisti di Warner Music non mancava mai di sottolineare che WMG fosse proprietaria della testata. Questa brutta abitudine “molto italiana” al conflitto di interessi, però, è solo parte del problema.
Se Lorenzza non avesse avuto un grande seguito social, a mio avviso, non sarebbe partito il merdone. Il numero di follower è un trigger troppo potente. Ma se non ci piace questa dinamica, c’è una contromisura molto semplice da adottare: smettere di guardare i numeri. Tutti i numeri, dalle riproduzioni su Spotify ai follower social. Noi promettiamo di smettere di guardarli, o meglio costringiamo le piattaforme a smettere di mostrarli, e magari queste pratiche di promozione non risulteranno più così posticce: vedrai girare il nome di un’artista, magari nelle stories di un collega affermato, e ti verrà voglia o meno di provare a sentirla, e farti un’opinione da te, senza dare per scontato che dietro ci sia chissà quale cospirazione. Perché evidentemente i numeri non sono garanzia di trasparenza, e l’unico metro di giudizio sono le tue orecchie. Magari anche artisti, mgmt e label possono chillare un momento riguardo i numeri: meno annunci di certificazioni; comunicazioni di tutti-esauriti solo per chi cerca biglietti e non sbandierate urbi et orbi, tanto per fare due esempi. Lo so, sto sognando. Il giochino funziona molto meglio così. Finché non si rompe, ovvio, e ci va di mezzo un’artista che non ha colpa. Se non quella - che abbiamo tutt* quant* - di vivere in un sistema sbagliato e farcelo andare bene così com’è. Peccato, perché il disco è molto grazioso: le basi sono selezionate con intelligenza, perché si prestano benissimo al suo timbro; lo storytelling è affilato. Insomma, suona credibile, suona real, piaccia o meno il modo in cui è stato lanciato. E questo è tutto quello che dobbiamo esigere dalla musica: non l’autenticità, ma il suono dell’autenticità. Ti sembra finto? Piacere, questa è l’arte.
Anglicismo terrificante, ma ci siamo intesi: ha pubblicato una Story dicendo che è brava.
E tra i Måneskin e Tones And I abbiamo visto che anche i busker possono diventare megafamosi!
Chiunque sia stat* un pomeriggio in giro per la provincia pisana cambierà subito idea sul fatto che da lì possa provenire altro se non disagio.
Onestamente, questo è l’unico mistero per me. Quando cerco notizie su A Lorenzza trovo sia il lancio di un EP l’8 novembre, sia il lancio di un LP che contiene tutte le tracce precedenti ma il 15 novembre. Non importa.
Curiosità per chi legge le note a pié di post: chiamiamo album un disco che contiene tante tracce perché negli anni dei dischi in lacca venivano pubblicati albi di lusso contenenti molti dischi, sui quali così si poteva sentire (cambiando lato e supporto) intere opere o collezioni di arie di un unico compositore. L’album è letteralmente un albo, e la RCA che puntava molto sul 45 giri per un po’ di anni provò anche a pubblicare gli LP in questa maniera, con un raccoglitore di diversi dischetti da 7 pollici, anziché su un unico 12 pollici, come si è poi imposto.
Funzionava così anche quando I Pop sono diventati gli 883, per esempio (e no, non ho ancora visto la serie, ma lo farò e ne parleremo).
Una volta, a una presentazione di un disco rap, chiesi all’artista che aveva “dedicato” una canzone a Donald Trump se, di fatto, la vittoria popolare e politica di un certo modo di sfidare la decenza e il buongusto non avesse decretato l’obsolescenza del messaggio ribelle del rap. Non ho ricevuto nessuna risposta. Ma qualche indizio su questo tema, in generale, lo puoi trovare nell’eccellente newsletter di
che si occupa di rap, politica e cultura popolare in America.