Le radici sono la frontiera
L'ultimo album di Bad Bunny è un'ottima scusa per parlare di tradizione
Quello che voglio dire è per quale ragione mi ritrovo in questa posizione? Cosa viene dopo? Muori e basta. Non è che ti dicono “Ah beh eri l’artista più streammato”. E quindi? Ci pensavo e mi son detto: Dovrei fare qualcosa che mi aiuti a piantare un seme. Questa è la ragione: dare ai più giovani la possibilità di mettere in mostra i ritmi di Puerto Rico.
Bad Bunny, da Popcast - The New York Times
Non avevo particolare interesse a ricominciare gli approfondimenti del mercoledì dandomi ragione da solo. Ma il giorno dopo la pubblicazione del mio primo post dell’anno è uscito un album di Bad Bunny che - beh - mi dà ragione. Allora, parliamone.
«La musica locale sempre più rilevante potrebbe farci riscoprire radici»
Sabato mi azzardavo a pronunciare questa previsione. Come dicevo subito sotto, lo stacco di controtendenze tra gusti globali e abitudini locali avrebbe permesso agli artisti pop più intelligenti di approfittare di questa balcanizzazione degli ascolti per tirare fuori dal passato alcune radici sepolte. Prima, una premessa.
Che ogni grande mercato discografico stia ascoltando sempre più solo sé stesso è un dato di fatto noto da anni, e che sta cominciando a registrare effetti particolari. Tipo la scomparsa o quasi dall’orizzonte dei consumi globali del rap americano in favore dei rap locali - stra-primo in Italia, in Francia, in Germania, per fare tre esempi vicini.
Ma, d’altro canto, assistiamo anche a fenomeni che provano in senso inverso la stessa tesi: per esempio, per la prima volta da dieci anni il mercato coreano si è contratto, e alcuni attribuiscono questo calo all’eccessiva attenzione che gli act k-pop, specie da solisti, riservano ai mercati occidentali. I quali, così, hanno perso appeal locale1. Magari nel 2025 avrà finalmente rilievo quella corrente underground del k-pop che si richiama al genere tradizionale ppongjjak e di cui si è fatto portavoce il produttore 250.
Le letture teoriche, comunque, ci portano fino a un certo punto. Andiamo a sentire nel concreto cosa sta succedendo.
Com’è questo disco di Bad Bunny
L’ultimo album di Bad Bunny, Debí Tirar Más Fotos (trad. “avrei dovuto scattare più foto”) è composto da 17 tracce che non ti risulteranno proprio familiari se dell’artista portoricano conosci (anche solo per esposizione involontaria) i brani più celebri come Moscow Mule. Le produzioni sono miste elettroniche e acustiche, con beat che spesso si interrompono bruscamente per lasciare spazio a sezioni strumentali o cori che hanno chiaramente un’altra fattura. Anche la stessa base ritmica di gran parte dei pezzi risulta per lo più differente da quello che l’artista ha pubblicato, con clave e tempi che certamente ricordano i ritmi sviluppati nelle Antille dal clash di africani portati a forza, colonizzatori spagnoli e popoli indigeni. Insomma, è un disco diverso. Di Bad Bunny restano le melodie melliflue, le tastiere che qui risultano ancora più spettrali e oniriche, saltuariamente l’auto-tune: ma, inserite nel contesto di un disco fatto così, tutte queste caratteristiche risultano molto più interessanti.
Come chiarito nell’intervista che citavo, l’album si pone esplicitamente l’obiettivo di far scoprire agli ascoltatori più giovani le radici della musica di Puerto Rico, dimostrando contemporaneamente che questa tradizione è viva ed è portata avanti a sua volta da altri giovani. Per suonare le molte parti live di questo album, infatti, il musicista ha chiamato a raccolta gli studenti della Escuela Libre de Música Ernesto Ramos Antonini di San Juan. Sono giovani latinos che interessano meno ai media - Bad Bunny ne è consapevole, lo dice proprio - perché la narrazione per cui sono automaticamente e interamente patiti di reggaetón in quanto giovani ispanici è irresistibile. Ma sbagliata - come qui da noi pensare che ogni giovane sia per forza fan della trap - e comunque riduttiva e divisiva.
Reggaetón e radici: parlare a pochi, parlare meglio
Non si può parlare di musica contemporanea di Puerto Rico senza citare il reggaetón, un movimento che ha tanti fan quanti detrattori, e che comunque va ritenuto responsabile del più grande scostamento dai paradigmi anglo-americani della canzone popolare occidentale dai tempi dell’ondata latina che ha investito jazz e canzone popolare americana (e non solo) negli anni ‘40 e ‘50. Peraltro, ondata motivata sempre dalla stessa fonte: l’immigrazione isapnica, e in particolar modo boricua, negli Stati Uniti. Ma l’ondata attuale si distingue perché non ha nessuna intenzione di adattarsi al gusto medio dell’ascoltatore: sonicamente è irriverente e tamarra, e per questo piace agli adolescenti di tutto il mondo; linguisticamente è ispanofona, e se un grosso pezzo del pubblico non capisce, poco male. A tal proposito, l’intervista con il NY Times si conclude con uno scambio divertente e rivelatore, quando Jon Caramanica e Joe Coscarelli del Times gli chiedono dell’uso della lingua spagnola e in particolare dello slang di Puerto Rico.
BAD BUNNY In Nadie Sabe Lo Que Va a Pasar Mañana sono certo al 100% che molte persone si siano fatti sfuggire le parti migliori del disco.
CARAMANICA E questo come ti fa sentire?
BAD BUNNY [cantando] I doooooon’ttttt caaaaaaaare
In pratica, arrivato più in alto di chiunque altra persona nel suo campo, Bad Bunny ha pensato bene di concentrarsi sul suo pubblico di riferimento e sulle sue radici, e non sul farsi comprendere da tutti.
Il richiamo alla radice non è di per sé sorprendente nelle narrazioni delle popstar: tra gli otto topoi di cui parlammo più di un anno fa c’è proprio “il ritorno alle origini”. Ma solitamente questo viaggio nel tempo è decisamente più personale, quasi privato e domestico2. Bad Bunny, invece, si mette a servizio di una storia più grande. Con un senso di passaggio di consegne e un leggero rimpianto che, se non direttamente dai testi, emerge sicuramente dal concept.
Nel cortometraggio che introduce il disco, lui non si vede nemmeno, sostituito com’è da una versione anziana di sé stesso (che però non è chiaramente identificata) che riflettendo sul passato rimpiange, per l’appunto, di non aver scattato abbastanza foto per ricordare i momenti felici. Subito dopo, il vecchio fa un giro per l’isola ritrovandola profondamente americanizzata, un posto alieno che un tempo chiamava casa. Il senso allegorico di questo filmino conferma il punto di vista generale: di fronte ai grandi cambiamenti storici, perfino una rivoluzione commerciale e culturale come quella del reggaetón rischia di non sembrare altro che un vecchio ricordo sbiadito, da dimenticare insieme alle altre tradizioni musicali dei tempi remoti.
Tutto è ciclico nella musica pop: non è impensabile che il reggaetón abbandonerà il centro dell’attenzione, anche se non sappiamo esattamente quando. Ma la visione del cortometraggio è più apocalittica, la sua scala è più vasta della semplice fine di una moda. Non è difficile individuare tra le ragioni di questo punto di vista così drastico la causa legale intentata per proteggere il ritmo di base di quel genere, il dem bow, come creazione originale degna di copyright, individuabile in una precisa traccia e in un preciso processo creativo. Una causa che ha colpito direttamente anche Bad Bunny.
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La storia è musica, la musica è storia
Comunque la si pensi su questa faccenda, è indubbio che sia stato il successo enorme del genere ad aver messo in moto una procedura giuridica: non è, insomma, il valore culturale della musica ma quello monetario a essere sotto esame. Ed ecco che, nel mezzo di questo brutto affare, l’artista più popolare di Puerto Rico pubblica un lavoro che ha lo scopo di andare a scoperchiare le origini del dem bow, mettendolo in dialogo con tutte le consuetudini di musica e danza che si sono sviluppate negli ultimi cinque secoli della storia insulare.
Non lo dico solo in senso metaforico. Su YouTube le tracce del disco sono caricate con un apparato grafico quasi interamente scritto (in spagnolo), con card multiple che invitano ad approfondire la storia di Puerto Rico - abbastanza chiaro l’intento politico, che risulta ancora più acuto all’alba di una seconda presidenza Trump. Fra gli argomenti di storia portoricana trattati in queste dissertazioni (dai movimenti indipendentisti all’estinzione delle specie locali) c’è spazio anche per la musica. Nel “video” della traccia probabilmente migliore dell’album, la quasi-title-track DtMF, leggiamo la storia della musica popolare della sua terra dalla plena alla bomba fino al reggaetón.
Possibile che ci sia un intento polemico, senz’altro: “se fai causa a me perché ho copiato il dem bow, devi far causa a una storia, a un popolo”, sembra dirci l’artista. Ma è abbastanza chiaro che gli stia a cuore non solo l’origine, ma il destino della musica che ha fatto la fortuna sua e di molti altri colleghi: cosa sarà dell’eredità culturale di Puerto Rico, se la prima manifestazione di successo si trasforma in una scusa per delimitare, tassare, prosciugare? Se non saprà stare in piedi accanto ai suoi antenati?
Il vantaggio latino
Se pure le motivazioni di Bad Bunny fossero puramente commerciali, se dietro ci fosse solo il bisogno di proporre un progetto roots per offrire una versione diversa del medesimo prodotto, comunque potremmo trarre una conclusione interessante: di fronte alla saturazione di un genere fortemente connotato culturalmente, la strada più intelligente è quella che si appella alle radici, e non all’ulteriore contaminazione americanocentrica.
Dopotutto, riscoprire una radice non significa per forza risalire a tempi ancestrali, e a ben vedere non è nemmeno un atto identitario in senso reazionario. Rosalía con il flamenco-trap di El Mal Querer, Peso Pluma con la pesante componente tradizionale messicana dei corridos tumbados di Éxodo, Arca con le profondissime influenze della gaita venezuelana in Kick i e oltre. Tutte queste manifestazioni, chi più pop e chi meno, ci dicono che nella musica latina esiste lo spazio per espandere i vocabolari sonori, melodici, armonici, ritmici anche in senso piuttosto progressivo. Questo spazio, però, è un tempo: il passato, che evidentemente non è ancora finito.
Ma una sperimentazione del genere viene facile a chi, di default, può appellarsi a un pubblico di centinaia di milioni di persone. Complice una popolazione ispanica che ormai ha superato il 19% del totale, gli Stati Uniti sono un terreno ideale per esplorare tradizioni in quest’ambito: se gli yankee possono riscoprire il country, i latinos possono riscoprire una qualsiasi delle centinaia di eredità che hanno portato con sé dal Sud. Non annacquando i generi, come finora lo streaming ci aveva dato l’impressione di aver imposto. Ma, semmai, indossandoli in un mosaico di influenze ricco, articolato e - parola chiave per vendere qualsiasi cosa nel XXI secolo - autentico.
Cosa possiamo imparare da tutto ciò
Per un artista, forse, la mossa più astuta nel 2025 è abbracciare lo spirito locale, riscoprire le radici. Non portare avanti tradizioni stanche, cioè, ma esporre all’aria qualcosa che era rimasto sepolto e sottinteso. approfondire, studiare, provare. Riscoprire le radici, in questo senso, significa farsi carico della loro attualità, non pretendere che il passato sia riproponibile tal quale. Significa esercitare pressione sul gusto musicale globale e sull’abitudine all’ascolto locale: vedere fino a che punto ci si può spingere per fare cultura anche con le canzoncine romantiche e da ballare; capire se siamo in stagnazione, oppure no. Significa fare la tara alle facili nostalgie, alle soluzioni semplici che vorrebbero soltanto riavvolgere il nastro del tempo. Fare ciò con un’integrità artistica, cioè senza usare la tradizione come miniera dalla quale estrarre facile profitto, e restando moderni e universali: questa è la vera sfida.
Noi abbiamo visto qualcosa di paragonabile a questa storia quando negli ultimi anni il revival italo-disco si è preso un pezzo importante di immaginario e di mercato nazionale. Forse è solo un caso che la notizia musicale italiana di oggi è che Warner Music Italia ha acquisito DWA Records, etichetta che ha fatto la storia dell’italo-dance. Forse è solo la manifestazione locale della tendenza ad accentrare importanti cataloghi discografici (The Rhythm of the Night; Happy di Alexia; e molte altre galline vecchie dalle uova d’oro). Forse è il segnale che bisogna andare a scavare da qualche altra parte nel revivalismo fatto bene - il prog? Il beat? Perché no… - visto che una major è arrivata sicuramente con intenzioni precise. Comunque la si veda, nel 2025 non abbiamo finito di accogliere fantasmi del passato. Starà a noi stabilire se - come quelli di Bad Bunny - avranno qualcosa da dirci, o se li stiamo evocando solo perché ci mancano idee più forti.
mi viene da aggiungere anche che la Corea è un mercato molto piccolo, e che l’accusa di occidentalizzazione gira tra osservatori e fan da quasi dieci anni, ormai
funziona un po’ diversamente per le rapstar, ma un rapper che si appella alla strada sta veramente eseguendo un ritorno o sta continuando a esplicitare il proprio topos di base?
Fede, devi leggere Olga Muore sognando. Tu e Xóchitl Gonzales siete le uniche due persone che siete riusciti a vendermi il reggaeton