Ok, è stata un’estate densa. Non troppo di musica ascoltata, ma di cose da scrivere e da fare quello sì - più avanti ti dirò tutto. Per adesso, però, in questo posto appartato scrivo le mie opinioni su cosa ho ascoltato tra le nuove uscite di luglio e agosto, due mesi che per le ragioni di cui sopra mi sono sfuggite tra le mani. Non è tutto quello che è uscito, e anzi ti invito a scrivermi cosa sto dimenticando. Ma è quello che ho ascoltato. C’è anche una playlist, un po’ storta, ma carina, per pescare qui e là. Se anche tu hai avuto un luglio e un agosto pieni, vieni a ripassare.
Clairo, Charm
L’unico antidoto alla brat summer, per quel che mi riguarda, è stata la charm summer di Clairo. Il disco è stato prodotto da Leon Michels, e per me è semplicemente perfetto per come espande di poco, pochissimo, l’uovo prossemico dentro il quale si muove la Cottrill: la cameretta. Questo non è più bedroom pop, ma second bedroom trasformata in studiolo domestico pop: hai sempre la sensazione che stia sussurrando per non disturbare i vicini, ma gli strumenti, soprattutto le tastiere (un Wurlitzer di qua, un pianoforte staccato di là), hanno l’aria sufficiente per respirare. C’è anche una scrittura disinvolta, che se ne fotte di spezzare uno dei brani più canticchiabili con un intermezzo fuori contesto (Second Nature, che poi ti spezza le gambe sul finale facendo fischiettare con te un clarinetto, e allora ciao, dove siamo? in una feste di fuorisede?). Potremmo dire che stiamo reinventando il pop cantautorale degli anni ‘70? (Thank You sa di Carole King, è chiaro). Sì, potremmo, ma i ricorsi storici sono naturali: vedo meno citazionismo e più evoluzioni convergenti, una riscoperta tutto sommato spontanea di soluzioni efficaci per una voce e una lirica come la sua. Tipo, quanto potremmo ascrivere la psichedelia di Juna a un’adesione estetica a certi canoni rock seventies? Poco, secondo me. E quanto, invece, al semplice fatto che il pop di questa fetta di XXI secolo sia abbastanza stonato di base? Molto. Il risultato finale di questo paradosso è dolcissimo, una perla di album che mescolando soft rock, alt folk e funk (la matrice di Michels) finisce per avere strane assonanze con la chanson anni ‘70 (Hardy, Berger, Gainsbourg) e persino battistiane: prendi Slow Dance, che ti fa capire quanto sono scarsi tanti epigoni battistiani italiani rispetto a una che nemmeno sa chi sia Lucio nostro. Insomma, è roba fatta benissimo. Magari non indispensabile e urgente, ma chi siamo noi per dirlo? Qual è stata l’ultima cosa urgente che hai fatto?
Childish Gambino, Bando Stone and The New World
L’unico modo sensato per chiudere un’epoca caratterizzata dalla tensione tra finzione e confessione e dalla commistione degli stili e dei registri: infilare dodici generi musicali nella colonna sonora di un film e infarcirla di ballatone sentimentali. Gambino fa l’ultimo colpaccio con un disco che alla fine non è meraviglioso, tutt’altro: il peccato peggiore è il campionamento gratuito dei Prodigy in Got To Be, che d’altra parte potremmo immaginare come una brutta imitazione di Drake fatta per prenderlo in giro; ma anche pezzi che hanno le carte giuste come Lithonia o No Excuses con Kamasi hanno un grado di riascoltabilità basso, perché le aperture improvvise di piano e chitarra distorta del primo e la mancanza di direzione del secondo lasciano a bocca asciutta. Il mio punto debole è Real Love perché mi ricorda quei giorni semplici, 15 anni fa circa, quando un indie pop sporco e romantico ti dava l’impressione di poter salvare il mondo. Un discorso simile vale per Running Around con Fousheé, una specie di punkettino solare ed estivo come i giorni che abbiamo alle spalle: delizioso. I punti forti veri: l’R&B stordito di In The Night dove Jorja Smith e Amaarae aiutano a non cascare troppo nell’autocompiacimento maschio; i cambi di flow e di beat di Yoshinoya; i groove di Happy Survival con i Khruangbin, e lo dico al plurale perché la chitarra, il basso e la batteria fanno tre cose diverse contemporaneamente e le fanno benissimo (sembra una jam che hanno provato mille volte e non sapevano dove infilare, e nella sua mancanza di intenzione quantomeno non finge di essere null’altro che un esercizio). Insomma, luci e ombre come gran parte della carriera assurda di questo personaggio: se vuoi approfondire, ne avevo parlato su DLSO un paio di mesi fa.
Nick Cave & The Bad Seeds, Wild God
Se esiste uno spazio tra il dolore soffocante e la rivincita sulla vita è minuscolo, prezioso e invisibile: sappiamo com’è Nick Cave con i Bad Seeds quando descrive il lutto, l’assenza, l’astinenza e il vuoto (l’ambient straziante di Ghosteen, la voce fragilissima di Skeleton Tree, nati dalla tragedia di perdere un figlio), e conosciamo il fascino pericoloso di un racconto di redenzione che facilmente diventa autocompiacimento banale, ma questo disco riesce a percorrere gloriosamente una strada che corre nel mezzo e che pochi hanno percorso nella storia della musica. Joy mi sembra la canzone più significativa per quello che racconta, il bisogno animale di frugare in cerca di gioia quando il dolore diventa un’abitudine, un sogno dal quale non riesci a svegliarti (Long Dark Night); e per come lo fa, procedendo verso dopo verso con strutture sghembe e un’orchestrazione brillante ma ruvida, un gospel che si sporca di umanità e diventa quasi soul, lasciandosi alle spalle il blues. I synth che tanta importanza hanno avuto in quest’ultimo decennio e mezzo di musica di Cave sono sempre più granulosi, indistinti dagli strumenti acustici, tutti ingrommati e tremolanti. La voce di Cave sembra quella di chi si schiarisce la gola dopo troppo pianto, e in questo i cori femminili che si sentono in Conversion sembrano quelli di una congregazione che riaccoglie un fratello smarrito per tanto tempo, che lo invitano a riscoprire una qualche vita nonostante tutto, a riscoprire anche il sesso e il piacere nel caso (O Wow O Wow). Cinnamon Horses è una delle mie preferite (“Love asks for nothing, but love costs everything” è una di quelle frasi che un’altra generazione si sarebbe scritta sul diario, oggi finirà in qualche didascalia su Instagram). Non è una redenzione banale, non è un “inno alla vita”: è l’allegria disperata di chi sa che questa roba finirà per tutti. Dove per questa roba intendo la vita.
Remi Wolf, Big Ideas
Anche nel secondo album di Remi Wolf, come in Charm di Clairo, c’è lo zampino di Leon Michels che scrive la divertente Kangaroo e suona sax e flauto in un altro paio (Cinderella, Motorcycle, Cherries & Cream). E certamente c’è un po’ del suo tocco retro-funk, ma questo è prima di tutto un disco funky, con la y alla fine, nel senso di un disco divertente, energetico, un po’ zozzo. E certo, la tastiera che sembra un clavinet in Wave con il suo intreccio di colpi e pause ti fa pensare agli anni ‘70 (anche se non è una delle tracce toccate da Michels), ma queste considerazioni lasciano subito spazio alla felicità per come si aprono le chitarre in overdrive nel ritornello (meglio della suddetta Lithonia di Gambino), per come la voce non pretende di stare sette metri sopra tutto. Anche una canzone tristanzuola come When I Thought Of You riesci a tirarti su di morale per come non presta giuramento a nessun trend e mette insieme un fischietto registrato divinamente, una strofa con autotune, una muted guitar da Billie Joe Armstrong, un crescendo di sovraincisioni vocali disordinate: perché a rappresentare la tristezza non ci vuole niente, ma ricreare per bene il caos non è scontato. Questo è un disco pop quasi perfetto, se intendi il pop come un buffet di stimoli aderenti a una vibe. E la vibe è: “non devo smettere di essere scialla e diventare una persona di merda per dimostrarmi pronta a papparmi il mondo”, o una qualche cosa che si attagli a questa generazione di under-30 che meritano più di noi over. Gli prenoto un posto per le liste di fine anno.
JPEGMAFIA, I LAY DOWN MY LIFE FOR YOU
Se per caso ascolti il rap americano per le strumentali, il quinto LP ufficiale di Peggy potrebbe diventare il tuo disco preferito: se Scaring The Hoes era un capolavoro di testardaggine per come il produttore ha cavato fuori qualcosa di nuovo, geniale e terrificante da vecchie macchine, campionatori datati, drum machine d’epoca andando a fondo, qui invece si corre sulle lunghe distanze perché i sample sono senz’altro ruvidi e aspri come sa sceglierli, tagliarli, mixarli lui, ma c’è anche un luccichio abbagliante, l’intenzione precisa di annegarti di timbri densi e reboanti manco fossimo alle nozze d’argento della electro house e dell’indie sleaze (SIN MIEDO potrebbe triggerare qualcosa se passavi le serate in posti tipo il Mattatoio o La Casa 139). Il feeling decisamente anni Zero di queste tracce viene anche dalla chiarezza dei flow. Ma per il resto è 100% JPEGMAFIA, un coacervo di idee che viene accentuato dall’apertura a collaborazioni come nella mattacchiona it’s dark and hell is hot prodotta dal brasiliano DJ RaMeMes, o New Black History con Vince Staples e Flume alla produzione, o JPEGULTRA! con Denzel Curry e Kenny Beats alla produzione. E poi è un disco incredibilmente metal, e questo non può non risvegliarmi qualcosa: il groove di chitarra-basso-batteria che apre don’t rely on other men (singolo già segnalato ai tempi) ricorda i Pantera - vulgar display of power è il titolo della traccia che viene subito dopo, e non è un caso. Un album-energumeno che entra in una stanza e porta via tutto l’ossigeno con un respiro. Magniloquente, spassoso, facci un giro.
Jack White, No Name
Dato che ero impegnato in altre faccende, mi sono perso la storia su com’è uscito questo disco (tipo solo fisico per un tot e poi ora è anche in streaming?). Facciamo che non importa e ne parliamo come parleremmo di tutti gli altri dischi. Se non fosse che suona meglio di quasi tutta la roba pubblicata da White solista. A volte devi solo trovare il riff giusto, e quello di Old Scratch Blues è giustissimo. O forse devi trovare la disposizione d’animo in cui puoi ricominciare a fare il pazzo, usando la tua voce e le tue parole come quelle di uno che blatera lingue inesistenti sotto un tenda con altri fedeli mentre la chitarra tiene tutti in riga (Archbishop Harold Holmes). E questo rende questo disco anche piuttosto attuale, nella misura in cui può facilmente trovarci qualcosa di familiare chiunque stia attraversando i nostri tempi con il serbatoio della sanità mentale in riserva. Un altro pezzo eccellente, Number One With A Bullet ha due pregi, cioè non ostinarsi a cercare il volume più imponente possibile a spese delle mie orecchie, e un’introduzione di sola chitarre che vuole spezzare un po’ il tipico balletto pentatonico del blues e costruire qualcosa di meno tradizionale: si può ancora inventare qualcosa, insomma. Mi ricorderò di queste canzoni tra due mesi? Certo che no, ma è proprio questo il problema ed è anche il punto: No Name sembra fatto apposta per recuperare l’immanenza della musica, un’esperienza che si vive in 3 minuti e poi basta, senza bisogno di trascendenze ed eternità, dato che siamo qui solo per un istante.
Parannoul, Sky Hundred
Ormai uno dei miei piaceri ricorrenti è aspettare che dalla Corea del Sud arrivi un altro disco con il nome Parannoul in copertina: l’anno scorso After The Magic era stato uno dei miei dischi del cuore. Non saprei dirti se questa volta il giovane e misterioso musicista ce l’abbia fatta di nuovo, ma sicuramente questo è un altro contributo eccellente alla sua idea di shoegaze, una musica che - si dice - la gen Z ha in parte riabbracciato, talvolta non comprendendone i confini (ma chissenefrega non lo diciamo?). Parannoul, per esempio, ci ha messo tanto post-rock a larghe campiture di colore e una dose di melodia pop che, in questo disco in particolare, viene fuori senza vergogna: se l’apertura A Lot Can Happen avesse i volumi più modesti potrebbe passare per k-pop di una dozzina d’anni fa senza problemi. La cosa che distingue Sky Hundred è una sensazione di bolgia, una bassa definizione abbracciata in pieno, al limite dell’imprecisione (non è un disco da fonici, diciamola così), che fa pensare alle prime cose sue che avevo scoperto, cioè la cover mash-up di Bodys e All My Friends: siamo sempre nella cameretta, ma ci permettiamo di fare un baccano disumano e farlo sporco (Lights Off Repentance). Ma Parannoul non ha perso nemmeno un grado sulla sua rotta: vuole travolgerti e vuole emozionarti, quindi si facciano avanti tutte le melodie zuccherine nascoste nei feedback, si accomodino tutti i sentimentalismi (Gold River). Quindi pop, ok, ma anche no: perché questa roba non si consuma in un attimo, e non solo perché Evoke Me dura 14 meritatissimi minuti, ma perché in questo quarto d’ora ti sbatacchia come un mazzo di chiavi nello zaino. Incredibile.
King Gizzard & The Lizard Wizard, Flight b741
Il rock’n’roll tutto baffi, basette e blue jeans degli anni ‘70 aveva solo un difetto: era tanto sciallo nel modo di fare e nelle sensazioni che restituiva quanto era ignaro dei problemi che la società americana (e occidentale) stava attraversando in quel paciugo di decennio, tra droghe pesanti, riflusso e mille conquiste sociali lentamente sgretolate, per non parlare della devastazione psichica di una cultura di massa che ancora non aveva preso le contromisure terapeutiche e seppelliva ogni problema sotto l’automedicazione. Insomma, molti dei surfer e rider ribelli dell’epoca erano completamente devastati dentro. Il nuovo (25esimo?) album dei King Gizzard and the Lizard Wizard abbina finalmente a quella musica delle liriche che potrebbero sembrare nichiliste, e che invece sono appropriate: parlano di istinti suicidi, di paura di morire e di depressione (Raw Feel, forse la perla del disco), come i Doobie Brothers non avevano mai fatto. Il gruppo australiano continua a sperimentare: questa volta crea una timeline alternativa in cui il rock anni ‘70 non ha ignorato i problemi di fondo del suo mondo (chissà se esiste il punk in questa realtà parallela…) e prova a immaginare come sarebbe un blues rock che ti fa stare bene ma ti fa anche riflettere sulla tua mortalità. Il che, vista la particolare congiuntura di questo esperimento, fa sì che l’album sia anche molto divertente da sentire, pure senza troppe sovraletture, specie se si pensa alla roba che funziona anche su un livello non-sense come Hog Calling Contest.
beabadoobee, This Is How Tomorrow Moves
Io l’anglo-filippina Beatrice Laus la ascolto con piacere da anni, mi sembra un talento di scrittura davvero sopraffino; e non mi metterò qui a fare quello dei “era meglio il demo”. E naturalmente la distanza tra una Coffee e questo disco ultraprodotto da Rick Rubin risulta abbastanza siderale. Ma anche il precedente beatopia, che era già una chiara evoluzione del suo suono in più direzioni (bossa nova, baroque pop, grunge), aveva un suono che cercava un compromesso tra l’imitazione dell’adult alternative anni ‘90 e le idiosincrasie degli anni ‘20. In parte credo sia per il mix troppo separato e lustrato a lucido: per me il risultato non è nostalgico ma gelido, con dei suoni retro invecchiati senza fascino che emergono dal nulla per dire la loro - la chitarra che arpeggia due note a vuote prima del ritornello di Take A Bite, per fare un esempio. Mi spiace perché invece la scrittura è sempre di altissimo livello, e anche più matura come è giusto che sia: beabadoobee ha una riserva infinita di melodie che si intrecciano benissimo, ha capito come far crescere la sua voce dall’insicurezza adolescenziale al rintontimento da giovane adulta. Una canzone come One Time è chiaramente il frutto di chi ha sentito tanto Elliott Smith, ma si perde nella voglia di suonare come una Alanis Morissette degli anni Zero (la peggiore AM), con un arrangiamento che non ha un filo logico e pare partorito da un discografico che voleva fare i milioni con il rock trent’anni fa: due chitarre sovraincise che vorrebbero creare un contrasto timbrico un po’ smashingpumpkiniano, ma suona “troppo”; un assolo gratuito; un overdrive finale caduto dal cielo; fill di batteria grezzi. Ci sono comunque bei momenti, non voglio dire che sia un disco brutto altrimenti non te lo avrei consigliato qua in cima: Coming Home (già consigliata ai tempi); la giovanilissima e sentimentale Ever Seen; la jazzata A Cruel Affair; la ruvidina Post, arrivano tutte in fila e ti convincono che c’è ancora speranza per Bea. Ma poi arriva Beaches che sembra un cosplay di Sheryl Crow e ti chiedi chi abbia bisogno di questa nostalgia un tanto al chilo, se non le narrazioni che il presente è tutto uno schifo.
Fontaines D.C., Romance
È davvero difficile non vedere la parabola dei Fontaines D.C. alzarsi sempre più in alto e mandarli in orbita. Sarebbe successo anche senza questo album, forse. Era destino. E allora tanto vale fare adesso, sull’orlo del precipizio, il lavoro che “dividerà il pubblico”. (Ammesso che oggi si divida davvero il pubblico sui fenomeni artistici. A me sembra, piuttosto, che il pubblico sia ben separato da subito: da un parte, i fedeli che restano tali; dall’altra, gli osservatori esterni che aspettano il momento giusto per sputare sopra la cosa popolare del momento e dicono che “non gli piacciono più” anche se non gli sono mai piaciuti così tanto; in mezzo, i critici che si sentono obbligati a dare senso non solo alla musica ma a queste fratture degli ascoltatori; altrove, i moltissimi che non hanno idea di chi sia Grian Chatten, non l’hanno proprio mai sentito nominare). Non perché questo sia un disco commerciale: se proprio volessimo cercare quelle spie sonore consuete delle grandi produzioni (la voce davanti a tutti gli altri strumenti; le strutture simmetriche; i riff canticchiabili) a me sembra che già il precedente Skinty Fia potrebbe ricadere in quella categoria, dimostrando peraltro che non sia un peccato a prescindere. Invece, Romance è un disco che strappa per altre ragioni: ci sono alcune tastiere in più; si prova un sentimentalismo strimpellato con un filo di twee (Bug); la voce è paradossalmente meno centrale; sono usati suoni rarefatti e costruzioni della tensione a perdere (Sundowner; Desire) che hanno qualcosa di dream pop; si esce dalla dimensione irlandese. E secondo me i ragazzi stanno in piedi benissimo in questo nuovo terreno. Certo, sono cambiati: ascolti In The Modern World e vedi una parabola che in qualche modo porta verso Chris Martin, con il pessimismo al posto dell’ottimismo (differenza non da poco). Ma io credo ancora nei pezzi come colonne portanti dei dischi, e quando hai una canzone come Starbuster puoi stare tranquillo. Se hai dentro anche un ballatone rock come Favourite, hai fatto tombola.
Sabrina Carpenter, Short n’ Sweet
Abbiamo trovato la nuova popstar globale totale? Forse abbiamo trovato la nuova mega-autrice, perché - senza voler togliere nulla a Carpenter, non sono di quei giornalisti che vede le popstar come marionette - tutte le canzoni di questo sesto (SESTO?!) album dell’ex attrice Disney (DISNEY?!) è la stessa: Amy Allen, che è un po’ la nuova Julia Michaels nel senso che la stampa cerca il segreto di un successo in una singola causa e finisce per creare personaggi-non-personaggi. E il recente profilo del New York Times sta qui a dimostrare quello che ti sto dicendo - strano che il podcast And The Writer Is non le abbia già dedicato una puntata. “Alla fine non è così complicato”, come canta Carpenter in Good Graces: un’artista pop deve trovare il suo chi, la personalità che decide di presentare al pubblico, la ragione per cui dovremmo stare ad ascoltarla; qualcuno è fortunato e ne trova perfino tre o quattro in una carriera, e altri cercano il loro chi per anni. Sabrina Carpenter l’ha trovato da qualche parte tra Nonsense ed Espresso, ed è “ragazza minuta e aggraziata dice parolacce e parla di sesso in modo irriverente e privo di senso di colpa”: non è la cosa più originale, forse, ma lei la fa funzionare. Detto ciò, l’album è abbastanza penosetto: non ci sono canzoni brutte brutte, Sharpest Tool ha un motivetto memorabile; Bed Chem ha dei bei suoni. Il problema è che non riesco a trovare una connessione con le scenette di odio per le rivali in amore (Coincidence) e i tormentoni dopo un po’ mi uccidono la gioia (Espresso). Però, qualcosa di utile l’ho tratto: se nella tua vita da celebrità incontri sul serio persone stupide come quelle descritte in Dumb & Poetic, un ritratto a una dimensione del finto-colto (e anche solo scrivere “finto-colto” mi fa raggrinzire la pelle) che si sente più sveglio della nostra protagonista svampita e bambolona (di nuovo, pelle raggrinzita), allora non ho proprio nulla da invidiarti.
Magdalena Bay, Imaginal Disk
I Magdalena Bay sono un duo synthpop formato da Matthew Lewin e Mica Tenenbaum, che da 5-6 anni a questa parte provano a trovare la quadra del loro pastiche di generi che va dal J-pop digitale al prog, ma che è difficile definire hyperpop senza tradire un’etichetta già peraltro molto sputtanata. No, la loro musica ha un altro portamento, si muove con altri tempi e altri significati, non sembra abbandonare mai la pretesa di essere pop, per quanto completamente stralunato e massimalista. Se apri il tuo disco con un crescendo violento come quello di She Looked Like Me! hai chiaramente delle intenzioni bellicose, e io sono curioso di vedere dove andrai a parare. Tutto il disco ha questa dinamica: una cosa e il suo alter-ego terrificante. Del resto, il concept dell’album, ispirato da un termine che in realtà appartiene all’entomologia (insetti… paura!), descrive proprio la possibilità vagamente post-umanista di avere la propria coscienza disinstallata e reinstallata come fossero dischi. Ed ecco che anche la solare e innamorata Killing Time scende pian piano nell’orrore, prima psicologico (il bisogno di essere amati, cioè adorati, e in alternativa solo la morte) e poi esistenziale, con una voce spettrale che sostituisce quella flautata di Tenenbaum. Nei pianoforti tintinnanti di Death & Romance, nell’immagine autobiografica del Vampire In The Corner, nelle tastiere romantico-tenebrose di Fear, Sex, nell’ossessione vorticosa di Tunnel Vision, nel finale fatale di The Ballad of Matt & Mica, nell’immagine cruenta della pulizia ossessiva di Watching T.V. si vede l’interesse dei Magdalena Bay per il dualismo, che non è sintesi degli opposti ma è il rivolgimento della sorte, la moneta che atterra sulla faccia sbagliata, la discesa pericolosa che da una premessa normale e quotidiana ci porta alla catastrofe. Lo senti anche da come viene usato lo stereo, con suoni che fanno botta e risposta da un canale all’altro, sorprendendo, spaventando, spiazzando. Questo album è grandioso e terribile, suona in modo dolce e melodioso, fino a quando non mastichi la bacca sbagliata e crepi. Consigliato.
Los Campesinos!, All Hell
Quando il settimo a lungo atteso album dei Los Campesinos! parte, lo fa con un pezzo ripieno di glockenspiel: che anno è? Quanti anni ho? Dove sono? Più avanti, Gareth Paisley (ah già, ora hanno tutti il loro cognome) ammette di essere diventato vittima della nostalgia, e lo dice con una certa amarezza. Allora questo disco autopubblicato e autoprodotto è uno sguardo all’indietro? No, perché il gruppo gallese punta tutte le fiches in gioco e prova (e riesce) ad alzare il livello, creando qualcosa di profondamente sincero rispetto alle loro premesse (è un disco indie emo di chitarre e ritornelli urlati, non preoccuparti) ma elevando i suoni, espandendo, e non dimenticandosi del tempo che passa. Per quanto costellato di autocitazioni, All Hell fa i conti con l’età anagrafica - vedi la frase sui figli degli altri che diventeranno della buona gente di sinistra in Holy Smoke (2005) - e con alcuni nuovi complicati meccanismi sociali che ci invitano sì a dire “Can we all calm the fuck down?” ma pure riflettere con disgusto sul grande gioco di strategia parasociale e di architettura dei comportamenti che è diventata la musica (“Parasocial puppet master / Every suckеr in between / Sacrificial muppet pastor / To a thousand needy teens”, probabile riferimento a un’artista che con questo scherzo ci ha fatto i miliardi). La canzone in questione da cui ho preso la citazione, Clown Blood; or, Orpheus bobbing head è certamente una delle molte azioni spettacolari di un disco che è tutto bel gioco ma anche buoni valori (Feast of Tongues è un’altra delle mie preferite, oltre i due singoli che avevo già segnalato e che ritrovi nel Cestone Pucci e il mega-finalone emo acustico con la morale del disco Adult Acne Stigmata). Menzione speciale per Long Throes, che è una tenerissima dimostrazione del perché le persone di sinistra sono brave e i sedicenti patrioti sono delle merde - chiedo scusa, ma non è che ti togli il cognome Campesinos! e poi smetti di essere un compagno fin nel midollo, siamo quello che siamo.
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Altri album che ho ascoltato
Fire-Toolz, Breeze 🪀 un disco cybergrind, emo-djent, hypermetal, noisecore e chi ha più etichette le metta; in pratica ci sono tastiere di plastica e vetrocemento Korg M1, sassofoni balsamici e chitarrone a 8 corde, il tutto mixato da un pazzo esaltato che tratta con la stessa grazia scream parossistici, frammenti di pubblicità, dialoghi di serie tv e “cos’è sta roba, Jesus Christ Superstar?”. angel marcloid, la musicista che dal 2017 sta dietro a tutto questo caos, parla di “psycho-spiritual hard nu-age”, e anche se la mia descrizione potrebbe averti fatto pensare a un pastrocchio post-moderno snervante, la verità è che alla fine di queste contusioni digitali e queste piogge di pixel ci si sente stranamente in pace.
Zach Bryan, The Great American Bar Scene - se dovessi puntare sulla prossima star maschile a emergere dopo anni di stanca, direi che questo 100% americano con la mascella squadrata ha le chance migliori: il suo country non è svenduto al miglior offerente, non cerca di infiltrarsi nelle stazioni radio con beat stantii e immaginari precotti. Ogni country singer è uguale a tutti gli altri e unico, perché percorre le stesse strade e frequenta gli stessi locali, ma ha i suoi occhi a riprendere i dettagli e la sua bocca a ripeterceli: Zach Bryan
Kiasmos, II ⚓️ Olafur Arnalds e il suo amico Janus Rasmussen fanno di nuovo una jam e noi siamo qui a capire se ci divertiamo più noi o si divertono più loro: forse la seconda, ma talvolta ci si appiccica qualcosa.
Kasabian, Happenings 🌈 dura poco e inoltre è abbastanza privo di gioia, ma in Hell Of It si ricordano di quando sapevano mescolare tendenze del rock indipendente inglese, junk pop americano e roba da capelli impomatati per fare musica grezza da ballare a un concerto: tifo la loro reincarnazione senza abuser, ma devono fare meglio.
Sababa 5 & Yurika Hanashima, Kokoro 🧡 afrobeat israeliana e psych pop giapponese, cosa potrà mai andare storto? Niente, è un disco piacevolissimo, tutto groove, sintetizzatori che fischiettano nel cosmo, e questa voce da idol di una vecchia cassetta (prova a non ripetere in coro “Tokyo Midni-i-i-ight” prima della fine dell’omonima traccia, ti sfido).
Butu, KOKOKO! 🗑️ non è uno scherzo, dopo Kokoro c’è KOKOKO! che è l’evoluzione del progetto congolese Butu: si inizia suonando oggetti trovati nella spazzatura e si finisce (con lo zampinio del producer francese Débruit) a creare una specie di punk techno che odora di strade brulicanti, spiedini fumanti, monossido di carbonio e polveri (non tanto) sottili: c’è la gromma, ma non è inquietante (dimmi che non vuoi ballare e strillare Bazo Banga alla tua prossima sbronza, dai). Musica house e post-punk e kwassa kwassa per un mondo che non è stato ancora completamente ripulito, sanificato, anestetizzato, svenduto.
oreglo, Not Real People 🚇 esordio di un quartetto jazz londinese (ancora? eh sì) che ha tanta pacca e suona con una formazione tastiere-chitarra-batteria-tuba che funziona benissimo, con uno scambio di ruoli principali piuttosto fluido, un bel basso pacioccone (è la tuba!) e del gran gusto in generale, anche quando la band si stiracchia nel neo-soul (comet) e nel dub (opedge)
Cigarettes After Sex, X’s 🚬 finalmente ho capito i CAS, che peraltro ho visto al Fabrique anni fa in uno dei pochi concerti della mia vita in cui mi sono calate le palpebre: le loro canzoni piacciono come le canzoni di The Kid Laroi o Justin Bieber, funzionano e basta, sono pop con i pensierini in un periodo storico nel quale tante cose (anche l’ascolto della musica) sembra più solitario che mai, e la musica un po’ piagnona per questo piglia bene, ma con le reference slowcore e goth al posto delle truzzate svedesi. Tutto qui, e mi sta bene, non ho nulla da dire se non che le mie palpebre continuano a calare.
Johnny Blue Skies, Passage du Desire 🛵 dopo essersi sfasciato le corde vocali, tre anni fa, Sturgill Simpson ha annunciato il ritiro dalle tournée, ha cambiato nome, è andato in depressione, si è trasferito a Parigi (dimostrando, quantomeno, di essere uno che non sta con le mani in mano): questo nuovo pseudonimo, però, non è un lasciapassare per fare qualcosa di completamente diverso, anzi, sembra una scusa per schiacciare reset dopo un decennio di carriera che dal country mainstream a quello outlaw, dalle ispirazioni R&B a quelle cosmiche, l’ha visto espandere gli orizzonti della sua musica ben oltre Nashville. Ma alla fine non è neanche questo, perché anche qui si passa dal boogie di Scooter Blues agli archi psych-soul di Jupiter’s Faerie senza alcuna fatica: quindi forse il reset è solo personale? Può darsi, comunque questo è un altro disco che si lascia ascoltare con piacere.
DORIS, Ultimate Love Songs Collection + The Saver 🫨 pop/rap lo-fi, marcio, urbano, smaterializzato in una selva hauntologica di campioni saccheggiati alla memoria, alla tv, a YouTube, ma armato di emozioni precise, vive, presenti. Una raccolta di pezzi pubblicati su Soundcloud negli ultimi anni da un artista del New Jersey (Frank Dorrey all’anagrafe) che ho conosciuto grazie a questo strepitoso profilo ed è diventato una piccola ossessione, mi ha aperto la porta a un EP (The Saver) che pur non avendo l’urgenza quasi naif dei primi, ne mantiene alcune caratteristiche. Tra queste, la brevità: questi non sono pezzi da un minuto “per colpa di TikTok”, sono pezzi che finiscono esattamente quando devono, perché è finito quello che vogliono dire, perché il sample su cui si fondano ha finito la benzina. È tutto così maledettamente confuso eppure maledettamente esatto. Fulminante e viscerale.
Denzel Curry
Body Meat, Star Chris 🐦⬛ glitch pop peso, talvolta simile a una terza-via del metal, altre volte più prossimo a un R&B malefico e depresso (North Side). Loro vengono da Denver, sono quattro, e un pezzo di internet aspettava questo LP di debutto come l’ennesima cosa che salverà la musica; altri (io) si sono svegliati oggi. Dentro ci trovi un paio di pezzi con groove techno pazzeschi (Electrische), boom-clap tenebrosi digitali (Crystalize), la generale sensazione di trovarsi dentro un Final Fantasy andato particolarmente alla deriva, e poi questa ballata smembrata e sparpagliata intitolata Focus che sembra offrire il contrario esatto di quel che dice il titolo, e per questo è ancora più affascinante. E nonostante queste descrizioni così astratte rispetto alla musica che noi ultratrentenni codifichiamo come “sincera”, riesce ad avere dei momenti di onestà brutale alla James Blake (la maratona da 8 minuti Obu No Seirei) che fanno male.
Melt-Banana, 3+5 🚅 non ho mai provato quella cosa di respirare l’elio e parlare accelerato e fare il pirla, ma penso che quando mi capiterà comincerò a tirare testate in aria a destra e sinistra: questo disco, il primo da undici anni per il duo giapponese, mi ha dato quella sensazione lì. Epico e ridicolo, caotico e puntuale, hardcore e burlesco. Tutto questo senza suonare come una gigantesca presa per il culo: tipo, senti il break di Puzzle, appena prima che la canzone si proietti in orbita, e non trovi quelle pacchianate da giostre dubstep che senza dubbio porterebbero orde di fan (come no). Qui è tutto potente, ma con un filo di voce, con i volumi giusti, con le batterie vagamente attutite. Una follia bellissima, veloce, come un treno Shinkansen pieno di personaggi di fantasia.
Laurie Anderson, Amelia 🛩️ progetto geniale di musicare il viaggio di Amelia Earhart, provando a immedesimarsi non solo nelle parti emozionanti ma anche in quelle più triviali dell’ultimo fallito volo intorno al mondo della celeberrima pilota, di cui si perse traccia nell’Oceano Pacifico, a poche migliaia di chilometri dalla fine del tragitto. Anderson un po’ si immedesima, un po’ semplicemente narra quello che sembra un diario immaginario di quest’impresa, facendosi aiutare ogni tanto da ANOHNI, e componendo una trama fitta di droni, archi, field-recording. Nell’epoca dei podcast, una specie di radiodramma musicale, un’opera lirica contemporanea che se fosse un’installazione o uno spettacolo teatrale non sembrerebbe fuori posto.
Jon Hopkins, Ritual 🧘 non credo di avere gli strumenti per parlarti di questo disco, ma mi ha fatto stare bene: sarà che il musicista inglese sta esplorando da anni proprio come gli stati alterati della mente (con la musica, con la chimica, o entrambi) possano indurre cambiamenti profondi, toccare non solo nell’immanenza del viaggio, con tanto di viaggi sperimentali in Amazzonia che ricordano più le esperienze degli antropologi che non quelle dei musicisti. Fatto sta che, se non puoi permetterti un viaggio in Sudamerica o se l’ayahuasca non fa per te, questa serie di arpeggi e pennellate elettroniche sembrano un’approssimazione onesta di quelle esperienze.
Coco & Clair Clair, Girl ✨ rap lo-fi irriverente, un po’ brat ma con molta più leggerezza e cinismo (Charli è di una generazione prima, del resto). Segnalo questo disco a tratti davvero piacevole (Gorgeous International Really Lucky), arguto e brillante, ma non sempre straordinario, anche perché contiene una cover di Our House di Crosby Stills Nash & Young che ha il coraggio di essere tale, anziché campionare un pezzo gigantesco di una canzone famosa e provare a replicarne il successo con pigrizia. E la segnalo anche perché la sua vaporizzazione in new wave magica ha senso, e questo mi fa ben sperare in una generazione che vuole lasciare il suo segno anche scribacchiando sui capolavori del passato.
Doechii, Alligator Bites Never Heal 🐊 come molti presto attenzione alla rapper da quando nel 2020 è sembrata una delle novità più interessanti dell’ex etichetta di Kendrick Lamare, TDE. Questo mixtape forse non è ancora la cosa ma è una delizia da ascoltare: beat melmosi e viscidi sopra i quali pattina con una voce felpata, qualche volta citando Missy Elliott (BULLFROG) ma sempre trovando la tasca ritmica in cui infilare il flow, come un trombettista jazz con il 4/4 di un contrabbasso e batteria. Magistrale, ma non ancora travolgente.
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Italo dischi
MAYA di Mace era una bell’album, non lo nego. Alcuni pezzi, come Solo un uomo con la voce di Altea che avevo inserito in playlist e consigliato (la trovi nel Cestone) sono tra le robe migliori uscite in italiano nel 2024. Ma il disco ha anche alcune presenze che onestamente non mi girano bene: lo sai, quando faccio analisi e critica cerco di non farmi influenzare troppo dai miei gusti, ma quando si tratta di consigliare roba buona da sentire mi viene più difficile (chi sono gli ospiti che non mi piacciono per niente? Ti lascio indovinare). Comunque, questo problema svanisce nella versione strumentale, e sia benedetto Mace per averla pubblicata. Colonna sonora perfetta per estati migliori di quelle che saranno effettivamente, musica per sognare a occhi aperti, ricercata nei suoni, equilibrata nei livelli e nei volumi, vintage ma prodotta con orecchio moderno.
Annuario di AL!S è un esordio con qualcosa da dire in ambito pop e R&B, che prova a sporcare il discorso, a mostrare foto mosse e con le espressioni brutte ma spontanee, ma poi fa l’errore di post-produrre troppo quegli stessi scatti, metterci troppi filtri, e alla fine non è neanche che non sembrano più canzoni “genuine”, è che tutti i colori sono allo stesso livello: forse son problemi di equalizzazione e mix, forse è che ci sono solo un paio di brani davvero maturi; ma quei brani (tipo Discorotto) valgono un ascolto.
Gotico Romanzo di Pufuleti in realtà è uscito a fine giugno, ma l’ho beccato solo il mese dopo: trovo geniale il suo uso di refrain e leitmotiv lirici (“difendimi dagli edifici brutalisti”) che trovi qui e là in tutti i pezzi. Tranne nel finale, il giorno del tuo compleanno, dove canta Jacopo Lietti (FBYC, verme, Liquami), e che metto in playlist perché quando ascolti la voce di Jacopo ti si crepa qualcosa dentro, e devi arrivare fino alla fine della spaccatura.