PW37: quando è meglio farsi da parte e quando no
16-22 novembre: Father John Misty; Kendrick Lamar; Michael Kiwanuka; TRANSA
Ci avviciniamo alla stagione delle liste di fine anno, quando - come ti scrissi un anno fa - mi sale un’ansia immane. Mai come l’ansia che deve avere addosso Drake per farsi venire in mente di citare in giudizio Universal Music (che è anche la sua major) perché avrebbe ingigantito gli ascolti di not like us di Kendrick Lamar influenzando Spotify, Apple Music e le radio con l’uso di bot - dei quali probabilmente ha beneficiato pure lui, in passato. Se il grande circo dell’industria discografica dovesse saltare in aria per causa di Drake, ci sarebbe da ridere. Anche perché il successo di Drake, a detta di molti, sarebbe il frutto di un grosso lavoro di manipolazione dell’hype: il rapper canadese è stato accusato a lungo di essere un industry plant. Come? Non sai cosa significa? Ho un articolo per te, qua sotto.
Ma parliamo di cose serie. I Giardini di Mirò si sono sciolti: un sentito addio.
Qui sotto trovi la playlist New Music Pucci con le canzoni che mi sono garbate la settimana scorsa (qua se usi Apple Music), mentre nel Cestone Pucci trovi tutte le selezioni delle settimane precedenti.
E ora parliamo dei dischi di una settimana fa. A partire da due che, secondo me, non invecchieranno presto. E meno male.
Father John Misty si fa da parte (Mahashmashana)
Il fatto che l’arte sia soggettiva e non riusciamo a metterci troppo d’accordo sulla qualità, non dovrebbe essere un argomento a sfavore. Non è che i dischi debbano fare a gara di assoluto con le onde gravitazionali o le equazioni di secondo grado. Anzi, questa volatilità dovrebbe essere il suo bello (lo è). Dentro la musica di Father John Misty - tutto sommato, non così complessa - ognuno pesca ciò che vuole, che può, che gli serve: il suo soft rock elegante, folk in velluto e satin, country-jazz potrebbe non avere tutti i piani di lettura che ha, se non fosse che Josh Tillman è un uomo di molte mitologie - la sua, prima di tutto. E una mitologia non è altro che la pretesa di una storia di essere letta, riletta, reinterpretata di continuo. L’orizzonte della scrittura di Misty è vasto almeno quanto il suo leggendario ego: scrive vignette da un mondo alla rovina, viaggi cosmici a bordo di quella bagnarola che è la vita; come potrebbero essere altro se non oggetto di milioni di letture differenti? A maggior ragione perché annodano molte emozioni, molti punti di vista: sono magniloquenti e confessionali, e non ti consentono quasi mai di separare il tragico dal sardonico, il serio dal deficiente.
Rieccoci alla soggettività: la musica fatta bene non dice a tutti la stessa cosa, a mio avviso. Puoi aver cancellato l’abbonamento alla saga di Misty, eppure stupirti delle sue illuminazioni: chi non ha desiderato un cielo grigio nei giorni più caldi d’estate (l’allegoria sull’amore di Summer’s Gone)? Puoi ignorare la sua altalena tra cinismo e innocenza, ma finirai per sentire tutto: questo disco è già stato definito il suo “più sincero”, vero, eppure la maestosa title track ha l’ardire di definire la metafisica “un raggiro per arricchire gli stronzi”. Puoi - forse dovresti - tralasciare il suo personaggio oltraggioso e polemico, e restare in ogni caso affascinato dal carisma di un disilluso maledetto in un’epoca di disillusi molto “funzionali”: I Guess Time Just Makes Fools of Us All è tanto autocritica quanto satira. Puoi non aver subito il fascino di versi come “Starvation Army needs a marching piano in the band” o “What would it sound like if you were the songwriter and you made your living off of me?”, e comunque troverai un aforisma adatto a te: io mi sono affezionato a “Maybe the stunt guy was my true self”.
Mahashmashana è il disco più denso e sfaccettato di questo cantautore tanto avvolto nel suo racconto da farci dimenticare quanto sia bravo. Ci ho sentito il Tillman che preferisco: cinematografico, confuso, personale come in God’s Favorite Customer; apocalittico, sarcastico, pessimista come in Pure Comedy. Del disco del 2017, in particolare, ritrovo la voglia di dirigere orchestre hollywoodiane in vestaglia sull’orlo del burrone: Josh Tillman and the Accidental Dose ti porta a spasso nella sua narrazione usando tutti gli archi che ha, in un crescendo rossiniano che si ferma un passo prima della cacofonia; Mental Health, osservazione letteralmente ironica (scritta immaginandosi “sopra” la realtà, ha spiegato) eppure sincera in modo straziante, gioca sull’assurdità di questa frustrante e necessaria ricerca di sanità chiamando a raccolta quanti più fiati e legni e cori angelici possibile. Ci ho sentito una coerenza interna spaventosa, ma anche una concisione che mancava a Pure Comedy. Tra She Cleans Up e Being You troverai un richiamo interno perfetto (cerca di ricordarsi il titolo di un film che ha sognato la notte prima nella prima, e gli torna in mente nella seconda): il che fa ridere ma anche riflettere perché i due brani sono collegati strettamente dal tema, l’inutilità di recitare una parte nel mezzo di una crisi esistenziale. Recitare, Los Angeles, spiritualismo, psicanalisi. Tutto torna.
Se questo fosse solo un disco di Father John Misty che rimescola il suo meglio, sarebbe comunque ottimo. Quel che lo rende eccezionale è la tensione, semmai, a farsi da parte, a togliere l’ego dalla cornice. O a provarci, ecco. Allora rinuncia più volte al ruolo di crooner e lascia respirare le canzoni accorciando i suoi pensieri - i brani restano lunghi, ma tanti versi hanno la decenza di durare una sola battuta e seguire il ritmo del beat anziché stritolarcelo dentro (Being You). Si potrebbe anche dire che è il suo progetto più collaborativo di sempre: c’è il solito Jonathan Wilson in cabina; ma c’è anche Alan Sparhawk alla chitarra in Screamland; BJ Burton (Bon Iver, Low) che produce e mixa le due tracce più cazzute; Drew Erickson è accreditato come autore oltre che arrangiatore degli archi (già in Chlöe ma pure in dischi che ho adorato come Titanic Rising e Big Time, e ancora Lana Del Rey e Mitski); c’è anche la firma dei Viagra Boys perché She Cleans Up è stata suonata su un loop della batteria di Punk Rock Loser, come ha spiegato in una delle sue prime interviste live da anni - trovo anche questo molto significativo (Tillman è un batterista). Infine, avverto anche il desiderio, in un paio di occasioni, di filtrare, bloccare, alterare la voce: il ritornello (un po’ da stadio!?) di Screamland, così sintetico, così disturbato, ricorda meno il Tillman confidenziale e piacione, e più il Beck di Sea Change - quando diceva che era “stanco di combattere per una causa persa” distorcendo il timbro per disperdere il dolore nelle macchine. È come se la grande finzione che era stata Chlöe, un disco-messinscena, avesse lasciato al cantautore la curiosità di guardare tutto da lontano: non accanto a Dio, come in Pure Comedy; in un posto solitario, a 10mila metri da terra, dove a un certo punto ti dimentichi di te stesso, dove puoi guardarti da fuori. E renderti conto di essere parte di un tutto più grande di te.
Ascolta Mahashmashana su Bandcamp, Spotify e Apple Music
Kendrick Lamar va dritto al punto (GNX)
A sorpresa, venerdì è uscito un nuovo album di Kendrick Lamar. Un disco che ha la grinta e la voglia di entrare di testa nell’attualità e nella polemica come DAMN. ma meno concettuale rispetto al 2017. Ma fino a un certo punto, perché il tema (la predestinazione al conflitto, la predestinazione alla grandezza) attraversa e informa anche momenti decisamente ambiziosi. In reincarnated si cala dentro le vite di due persone afroamericane senza nome (una forse è Billie Holiday?) che in passato hanno cercato di usare la musica per liberarsi dall’oppressione, e le collega direttamente alla sua storia, concludendo con un dialogo interiore con Dio sulla responsabilità di chi ha un talento (peccato per i volumi degli archi nella terza strofa). In man at the garden, invece, torna il tema del destino: Kendrick è il messia del rap? Merita le lodi e quindi anche le invidie? Qual è il Kendrick che la gente vuole? Se tutto ciò non è purissimo Lamar, non so cosa. Ci sono anche altri importanti fili conduttori, a mo’ di leitmotif, come sua abitudine: tipo, la voce della cantante messicana mariachi Deyra Barrera, che si trova all’inizio, al centro e alla fine del disco. Il che rende ancora più stretto il legame con la West Coast: K-dot ci sta dicendo che questo sarà il disco in cui rimette a posto i suoi conti con la scena che crede, a buon diritto, di aver riportato in auge, in parte facendosi il proverbiale giro di campo, in parte dando spazio come mai prima ad altri MC losangelini, celebri o meno.
Ma alla fine il concept del disco è il non avere bisogno di un concept straordinariamente rigido: nella fortissima traccia d’apertura, wacced out mural, ci dice “fuck a double entendre, I want you all to feel this shit” e dovremmo stare a sentire. Ed eccoci qua con il disco più vibe di Kendrick, quello in cui vieni invitato ad ascoltare il suo talento dispiegarsi senza eccessive sovrastrutture, il suo album più diretto: gli hanno chiesto di andare in giro con una Grand National Experimental, un macchinone “da rapper”, e lui lo fa, contenti? Dove riprende musicalmente il filo con not like us in tv off ma liberandolo dal contesto del dissing, dimostrando che sopra un beat di Mustard lui spacca e basta anche senza gossip. Dove aggiunge due perle al suo catalogo di pezzi con SZA, cioè luther (con un sample di Luther Vandross e Cheryl Lynn, quasi a inserirsi nella gloriosa storia dei duetti R&B) e gloria, il finalone che contiene un altro dialogo interno (con la sua penna). Se Kendrick non fosse il premio Pulitzer, il genio politico-intellettuale di To Pimp A Butterfly, l’osservatore profondo di sé e di Compton di good kid, m.A.A.d city e così via, direi che GNX è il disco ideale per chi vuole iniziare ad ascoltarlo: perché con i potenziali repeat che ti tira fuori, ti permette di acclimatarti al suo stile, ai suoi temi, alla sua varietà. Per tutti gli altri, è un giro che non dimenticheremo. In attesa del prossimo: a giudicare dalla musica del teaser (che non si sente in questo album), da esplicite informazioni del suo camp e da altri indizi, potrebbe arrivare un nuovo disco nel ‘25, magari annunciato durante il concerto nell’intervallo del Super Bowl.
Ascolta GNX su Spotify e Apple Music
Cos’è uscito venerdì (scorso)
Mentre si affastellano i singoli natalizi (sentirai in playlist… ma sono belli), venerdì 22 novembre ci ha dato non solo questi due dischi da classifica di fine anno. È stata una settimana intensa - lo dico sempre - ma vale la pena segnarsi almeno i prossimi quattro titoli.
Michael Kiwanuka, Small Changes
Il disco KIWANUKA del 2019 l’avevo consumato. Small Changes, come promette il titolo, cambia poco. Diciamo pure che ci sono formule ricorrenti, che sono diventate la firma del musicista londinese. Facciamo un esempio: One And Only, con la sua crescita lenta ma robusta, i suoi contrappunti spettrali, il suo andamento malinconico, la sua propensione a trasformarsi in una jam strumentale ha tutti i crismi di Cold Little Heart. Tutto suona divinamente, con un’eleganza spaventosa e nonchalant. Ma anche momenti che spezzano, come il groove che inciampa di Rebel Soul, che subito dopo One And Only ha un movimento speculare, in decrescendo. Lowdown (part i) è ballabilissima. Four Long Years è un finale straziante, forse il migliore commiato nella discografia di Kiwanuka, finora: se Light era tutta vibrazioni, una traversata fra i valori musicali di KIWANUKA da godersi come un sorbetto; se The Final Frame era fin troppo melodrammatica e forse non all’altezza del resto di Love & Hate; se Worry Walks Beside Me era una ciliegina su questa sorpresa retro-soul che fu Home Again; invece Four Long Years ha le gambe forti di un singolo. Tantissima roba.
AAVV, TRANSA
Le compilation dell’organizzazione benefica Red Hot meritano una storia a parte - fortunatamente, il bellissimo “nuovo” sito Hearing Things ha pensato bene di scriverne una al posto mio. Incontrai per la prima volta una loro compilation nel 1998, quando mio fratello comprò questa raccolta di reinterpretazioni del catalogo di George Gershwin, ma poi - come tante persone - sono rimasto appiccicato a queste pubblicazioni undici anni dopo, grazie a Dark Was The Night. Venerdì è uscita TRANSA, raccolta curata da Massima Bell e Dust Reid, che ha la comunità transgender come obiettivo di testimonianza. Le collaborazioni al solito piuttosto inusuali (Jeff Tweedy con claire rousay? Moses Sumney con ANOHNI1? Perfume Genius con Alan Sparhawk? me ne dia due porzioni, grazie) contemplano sia brani originali, sia reinterpretazioni, e sono suddivise in otto capitoli che vogliono rappresentare l’esperienza della vita transgender, dalla nascita alla reinvenzione, passando per tutti gli stadi intermedi, spesso (ma non sempre) dolorosi. L’obiettivo è lanciare uno sguardo nel cuore della nostra civiltà, per ricordarci che le persone trans sono sempre esistite: potremmo averle viste sotto un’altra luce, razionalizzate, censurate, dimenticate, o proprio ignorate del tutto, ma c’erano e ci sono, a dispetto di cosa pensino certe ricche miliardarie stronze d’oltremanica o i nostri abominevoli politici di destra. Pur nelle differenze stilistiche fra i molti artisti (da Laraaji a Julien Baker, da L’Rain a Laura Jane Grace, da Adrianne Lenker a Jlin), c’è un senso di continuità nella straordinaria umanità e vitalità delle tracce: l’ottima cover di un’icona trans controculturale come Beverly Glenn-Copeland con una popstar mainstream come Sam Smith ci aiuta a ricordare che la musica, alla fine, è una soltanto. Dalla perla di un album di Caetano Veloso che - involontariamente - ha dato il titolo a questa compilation fino alla bellissima nuova creazione di Kara Jackson, Dirty Projectors e l’arpista Ahya Simone, il livello è sempre molto alto. Una bellezza che fa bene all’anima, e che gli artisti presenti (queer o etero, trans o cis) offrono generosamente. Lo consiglio come ascolto per le feste in arrivo: anziché perderti in litigi con amici e familiari, aiuta a far brillare le esistenze delle persone transgender. Ce n’è bisogno. (E se qualcuno vuole regalarmi il cofanetto con 6 LP, lo accetto volentieri). Intanto, in playlist te ne trovi una manciata.
Dean & Britta & Sonic Boom, A Peace of Us
Un anno fa, su Fanpage, provavo a convincere il lettore ignaro che, un giorno, la canzone più ascoltata del mondo sarà All I Want For Christmas Is You, e non ci sarà proprio competizione per le altre. Perché, se come cultura decidiamo che il passato genericamente è il nostro ultimo rifugio, che la nostalgia è l’ultima valida forza motrice della nostra creatività, il Natale fregherà tutti quanti: in quella festa è stato concentrato al massimo il desiderio di tornare indietro, il bisogno quasi fisico di recuperare un’innocenza primigenia. Per questo motivo, la musica di Natale d’ora in poi dovrebbe suonare obbligatoriamente come fa in questo disco collaborativo tra Dean & Britta (ex Galaxy 500 ed ex Luna) e Sonic Boom (ex Spacemen 3), cioè come se fosse interpretata da un fantasma spaziale: chi è la voce che dice “you’re all I want for Christmas”? Quale civiltà aliena ti invita a ricercare la pace in Happy Xmas? In quale incubo hai già sentito questa versione scheletrica di Little Drummer Boy? Vai a sapere. L’unico disco di Natale di cui avrai bisogno, da qui fino alla fine del mondo. A meno che.
Kim Deal, Nobody Loves You More
A volte un disco non deve venire giù dal cielo per salvare il mondo. A volte serve solo per ristabilire un certo ordine nelle cose, sistemare un evidente errore di programmazione senza fare troppo rumore: tipo, aggiustare il fatto che Kim Deal (The Breeders e Pixies) non avesse mai pubblicato un album solista. Il che non significa che Nobody Loves You More sia un disco da piazzare nel panorama e ignorare: è un ottimo disco, con melodie graziose e malinconiche dove la penna è più morbida e riflette sulla mortalità (Wish I Was; Summerland), con un paio di momenti davvero abrasivi (Big Ben Beat) e due tre immagini che ti spaccano in due (la madre affetta da Alzheimer che le chiede “sei mia?”, aiuto). Forse lo ricorderemo anche perché è uno degli ultimissimi album prodotti da Steve Albini, che prevedibilmente ha fatto un lavoro egregio nel restituire una verità della performance, la sua dolcezza a tratti ma anche i punti dove la pelle è ingiallita o lo spessore di un alito. Se così fosse, se lo ricorderemo per questo motivo, sarà stato l’ennesimo gesto generoso di un genio, che si è tolto di torno e ha dato tutti i mezzi a un’artista che era ora che dicesse pienamente la sua.
Altri album ed EP
Non credo sia ancora finita la wave di nuovo shoegaze. Dopo essersi costruito un buon seguito con una serie di EP, l’artista del North Carolina Scarlet House ha pubblicato il suo primo album, Homecoming. Chitarre shoegaze, giri di accordi calibratissimi, un paio di fill di batteria piuttosto metal (Blind), un filtro eco fisso sulla voce, e a tratti (Alive) crederai di star sentendo i Deftones dentro un acquario. Non chiedo altro dalla vita.
André 3000 ha contribuito alla compilation TRANSA di cui parlavamo sopra, ma nello stesso giorno ha anche pubblicato un EP con un paio di tracce rimaste fuori dal suo album (candidato tra i migliori del 2024 ai Grammy, chi l’avrebbe mai detto): si intitola Moving Day, come la prima lunga traccia, e se ti è piaciuto New Blue Sun, ce n’è ancora. E c’è anche un mini-doc che ne racconta la genesi.
L’argentina Juana Molina ha pubblicato alcune tracce inedite, solo che il disco dalle cui sessioni sono state pescate le quattro tracce di EXHALO era uscito nel 2017: spaccano comunque nel loro guizzante folk pop funkettoso, sporco, graffiante. Pure i Friko hanno pubblicato un’appendice al loro album, Where we’ve been, Where we go from here un debutto che a febbraio mi era sembrato materiale da lista di fine anno: ci sono 11 tracce inedite, compresa una cover dei My Bloody Valentine. I quali peraltro hanno fatto sapere che torneranno a suonare dal vivo, ma ne riparleremo nel prossimo episodio di Nessuno allo stadio, dove scriverò anche di due dischi incisi dal vivo molto belli (Black Pumas e Jeff Parker).
Bellissimo Meaning’s Edge, il nuovo EP di Djrum, un lavoro di elettronica di purissimo gusto: il dj di Oxford taglia e cuce melodie, percussioni, sample, timbri con risultati ritmici straordinari. L’EP Loosies di Amber Mark è un antipasto al secondo album della cantante e produttrice americana che dovrebbe arrivare l’anno prossimo. Intanto, ci intratteniamo con un campionario delle sue doti nel dominare un beat danzabile con un timbro energico e caldo, dalla roba più house a quella più trap, passando per un pezzaccio synth-pop come Won’t Cry che ti metto in playlist.
Nilüfer Yanya ha pubblicato sei remix di tracce dal suo bell’album My Method Actor, tra cui uno frizzantino di Empress Of (anche lei candidata tra i migliori dischi del 2024, nella mia personale classifica) e uno pesantone di MorMor, che mi piace dai tempi della vecchia newsletter.
Italo dischi
Il nuovo disco dei Palmaria si intitola Ora, ma poteva anche chiamarsi “fili”. Perché quest’immagine, che forse è qualcosa di più (un simbolo?), ricorre e non a caso. Se ti dicessi che un disco di alternative R&B-pop/hypno-disco “sospeso”, infatti, probabilmente saresti già con almeno un piede nel mood giusto. Potremmo aggiungere che queste canzoni dondolano da un filo, e per questo occupano molti spazi emotivi contemporaneamente: sono esitanti, meste, sensuali, arrabbiate, cattive, dolci; sono pugnaci e rotonde (forse masterizzate/mixate troppo rumorosamente? forse) ma anche tenute in piedi dal filo (rieccolo) di voce di Giulia Magnani. Mi piace come le melodie e i giri giocano tra il familiare e l’inatteso in Fili elettrici; mi piace l’insistenza percussiva e maniacale di Le cose; mi piace il funk evanescente che si apre city pop di Le ore (una produzione alla Fudasca se mai ne ho sentita una, bravissimo). Per questo ti consiglio i singoli con una certa costanza da quando è iniziato il ciclo dell’album. E il pezzo prodotto da Emanuele Triglia, Godspeed/Fili d’erba, è un pezzone: movimentato nella scrittura; vaporoso e frusciante nel beat; sinuoso nel refrain. Spero che sia il disco della consacrazione di un duo che ti consiglio da anni per una ragione: sono bravi.
Pista Nera dei Post Nebbia è un altro contributo eccellente di una band che sta facendo del bene al rock alternativo italiano. Quasi vivesse su un altro piano della realtà, il quartetto padovano sperimenta mettendo a contatto musica che non è praticamente nelle priorità di nessuno nel nostro paese - e fanno bene, perché è così che si scoprono le figate. I risultati di questi esperimenti si vedono presto, perché già Io non lo so ha il savoir faire di un pezzo tropicalista suonato con la stolida ossessività di un gruppo kraut, un pezzo con il groove ma anche il senso di morte di un profeta post-punk, con chitarre che danno l’impressione di far scoppiare un ampli da un momento all’altro, come se Andy Gill fosse ancora tra noi - la title-track, una ventina di minuti dopo, riprende con successo queste combinazioni insane. Ma i paragoni non bastano: questo disco suona come l’inevitabile china verso l’autodistruzione che forse anche tu avverti nella direzione delle cose del mondo, un capitombolo disastroso sulla “pista nera”, gioco di parole che tristemente ha almeno due livelli di lettura che ci sono fin troppo presenti. Ascoltare i Post Nebbia ti dà l’impressione che la crudele insensatezza del nostro tempo non sia solo qualcosa di cui sentiamo parlare da artisti anglofoni, ma un problema comune: quando in Lingotto senti Corbellini decostruire il mito del treno, come se fossero ancora gli anni ‘60 di Bianciardi, ti rendi conto che non abbiamo fatto neanche un passo avanti, e questo per una parte d’Italia è un bene. Il fatto, poi, che la band suoni con grande pacca, come chi si è fatto più volte il giro d’Italia a suonare2, rende l’ascolto di Pista Nera non solo un’esperienza intellettualmente appagante, ma coinvolgente.
A proposito di band italiane che potremmo portarci sul petto con orgoglio, i Mondaze da Faenza hanno pubblicato un nuovo ottimo album di shoegaze pesa: si intitola Linger, e in effetti i pezzi tendono a restarti addosso. In copertina ci sono le farfalle, ma la delicatezza nel passo è quella di un pachiderma: sapere essere entrambe le cose, volatile eppur macigno, non è roba da tutti. Senti i piatti su Numb, inesorabili, devastanti; prova a correre rapidissimo ma al rallentatore come la title-track; e capirai subito. Discone.
Tra le altre uscite italiane degne di nota segnalo l’EP Lambda, debutto del giovane YOF che conferma il buono stato di salute dell’R&B italiano contemporaneo (tempi dispari; armonie insolite; beat storti; bel carisma; testi contorti; gran voce). E infine l’album Se io sono un pesce, tu che cosa sei? di Roberto Casanovi: canzoni ridotte all’osso, disturbate, spesso pacate nel passo, ma scintillanti e trascinanti (ottimo il finale, Qui non tutto ti riguarda).
Poveri singoli
L’abbiamo detto che si avvicina il Natale? Beh, qualcuno vorrebbe fartelo presente con una certa insistenza.
A proposito di tradizioni, ogni anno qualcuno mi chiede “ma non vedi X Factor?” e ogni anno rispondo: “Ho smesso di vedere il programma, perché è al 95% intrattenimento con una sua struttura e una sua storia che non mi interessano più. Però mi ascolto gli inediti, ed eventualmente recupero le cover di chi ha pubblicato quelli che ritengo migliori”. Ora, quest’anno la corona del migliore inedito per me va dritta a Fucina di Francamente (bel nome, bel titolo). E allora mi son rivisto le sue cover, e anche se ho il dubbio che le abbiano ritagliato addosso il ruolo di quella che canta sui pezzi lenti (o meglio, rallentati) e senza beat, devo dire che la sua Believe è notevole. Poi, certo, ho scoperto che ieri notte è stata eliminata al televoto. Io sì che ci vedo lungo. ù
Ci rileggiamo nel fine settimana.
Che rifanno SOPHIE, ed è una di due cover di SOPHIE questa settimana: chi trova l’altra non vince nulla, ma ascolta due belle canzoni.
Tra gennaio/febbraio i Post Nebbia meritatamente si fanno un altro giro in club più grossi del solito, e fanno un salto anche all’Eurosonic. Dai così.
Ho apprezzato tantissimo l'esordio di Father John Misty qualche anno fa (forse quasi 10 ormai), ma le uscite successive mi hanno lasciato tiepido, mi hai incuriosito, gli darò una nuovo possibilità.
Ho ascoltato l'esordio di Kim Deal e l'ho trovato proprio un bel disco.
Grazie per i suggerimenti 🙏