I telefoni ai concerti non sono un problema
Una polemichetta per imparare a vivere meglio con il presente e chi deve plasmarlo
Da un mese circa, Bob Dylan è tornato in tour, negli Stati Uniti. Come lo so? Perché mi tengo informato per restituirti tutte le notizie più importanti sulla musica in questa splendida newsletter1, tipo la notizia che Bob Dylan è tornato in tour2. In realtà, l’ho scoperto in un altro modo: ho visto su Twitter un po’ di video di suoi concerti, ripresi da gente esaltata - per esempio - che la scaletta fosse piena di cover degli anni ‘50 per le tappe dell’Outlaw Music Festival Tour di Willie Nelson a cui sta partecipando. E quindi - ho pensato, con stupore - il famigerato divieto di usare i telefoni ai concerti di Dylan è stato abolito? Mi sono perso l’avviso nella Gazzetta Ufficiale dei concerti? In realtà è probabile che proprio il contesto di un tour con altri artisti, com’è l’Outlaw Music Festival, impedisca al team di Dylan di ritirare i telefoni prima dello show. E quando saranno di nuovo show solo suoi, esso tornerà.
Se non lo sapevi già, questa è una tradizione che il cantautore ha adottato da anni: prima dello show gli spettatori sono invitati a inserire il loro telefono dentro una tasca sigillata che può essere aperta solo dagli addetti. L’azienda che produce questi sacchetti si chiama Yondr e - non ci crederai - sostiene che gli spettatori sono contenti di mettere via il telefono per una serata. Chi sono io per contraddirli, a parte una persona che ha letto milioni di comunicati stampa aziendali fatti passare per notizie giornalistiche?
D’altra parte, non posso vivere nella mente di tutti quanti: non dubito che molte persone siano sollevate dalle limitazioni che la tasca Yondr gli impone, esattamente come io sono felice quando devo scrivere molte pagine di un libro, e allora stacco Whatsapp per un paio di giorni. Le limitazioni non sono sempre un male, non farti ingannare: il neonato ama dormire fasciato stretto e l’adulto ama il bondage; il calcio è più bello perché esiste il fuorigioco e “sempre caro mi fu quest’ermo colle, e questa siepe che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”. Quello che è meno cool sono i predicozzi. Specie se coinvolgono strumenti a disposizione oggi che non c’erano ieri: tipo il predicozzo di Matt Berninger dei National contro la gente che cerca le scalette dei concerti (quindi, contro setlist.fm), perché a suo dire conoscere la scaletta del concerto prima del concerto rovina l’esperienza. Buffo dettaglio di queste polemiche incrociate: sul sito di Dylan si trovano le scalette di tutti i suoi concerti.
Digital witness
A questo punto della faccenda devo confessare una cosa, che probabilmente ho già confessato due o tre volte qui, sottolineando quindi la verità di fondo di quanto sto per dirti: ho una memoria di merda. Ricordo male e poco molti eventi, anche importanti, e ho bisogno continuamente di consultare appunti, foto, video, resoconti altrui per poter riaccendere le sinapsi che non stanno facendo il loro lavoro. Mi sono bruciato i neuroni? (Non con la droga, figurati, ma con le apnee notturne più probabilmente). O forse ho qualche segnale di neurodivergenza di cui sto rimandando la diagnosi? Chissà. Comunque, molti miei ricordi richiedono una conferma terza, una pezza d’appoggio. Questo ha una conseguenza diretta sulla mia esperienza ai concerti, perché consapevole di queste falle nella memoria, cerco di creare tutti i pattern possibili per non ritrovarmi, a 17 anni di distanza, a contemplare la line-up di un festival per chiedermi chi o cosa abbia visto: scatto foto e giro video del live; provo a memorizzare le setlist; se posso, sulla via del ritorno ascolto subito in cuffia quello che ho finito di sentire dal vivo.
Per un certo periodo mi sono fidato di una persona che mi ha convinto a scattare meno foto possibili: era l’inizio del decennio lungo3 e l’introduzione in massa degli smartphone rendeva attuali articoli con i pro e i contro dei telefoni ai concerti (all’epoca erano tutti in formato listicle: qui, nel 2013, il Guardian forniva 10 ragioni per cui i telefoni ai concerti sono ok); la situazione era nuova e quindi ha ispirato monologhi comici, puntate di Black Mirror, forse anche canzoni di St. Vincent. Il risultato è che oggi, per colpa di quella stupida regola autoimposta, mi ritrovo senza tanti documenti utili per ricordarmi i concerti che ho visto: Roberta mi dice che non importa, che l’importante è aver vissuto il concerto nel momento, godendoselo; io, però, sono comunque triste perché mi sovviene poco o nulla della prima volta che ho visto i National a Barcellona nel 2011 (meno male che su internet ho trovato la scaletta, caro il mio Matt Berninger). Ma di questo riparleremo un’altra volta, quest’estate4.
Fatto sta che, oggi, negli anni ‘20, la questione è diventata piuttosto identitaria: dire se sei pro o contro “i telefoni ai concerti” crea uno spartiacque ideologico, come dire se sei pro o contro le tasse, o Sanremo. Se proprio volessimo spacchettare la logica di questo argomento, dovremmo perdere due o tre paragrafi per stabilire in modo empirico cosa si intende per “i telefoni ai concerti”: di quanti telefoni parliamo? Per quanto tempo devono essere esposti perché diventino il suddetto problema? Sono convinto che ognuno darebbe una risposta diversa, e si arriverebbe soltanto alla conclusione che “così come sono oggi, sono troppi”. Al concerto degli Sleep che ho visto in provincia di Piacenza nella primavera del 2012 ne avrò visti forse 5 in alto contemporaneamente. Al concerto dei Club Dogo che ho visto meno di un mese fa ce ne saranno stati almeno 50mila tutti su, in certi momenti. Il problema di dati così diversi è che, purtroppo, emettere norme di etichetta basate solo sull’impressione (la famigerata vibe) non è facile, nel senso che non esiste Galateo che non contenga regole molto precise, basate su criteri quantificabili: se l’uso di telefoni deve essere scoraggiato solo quando tante persone per tanto tempo riprendono frammenti di concerto, chi stabilisce quel quanto? Proprio perché non esiste un margine oggettivo per valutare la faccenda, le reazioni a questa rottura di etichetta (e di balle?) dei telefoni ai concerti sono sempre particolarmente prive di nuance: dato che non vi sapete gestire - ti è stato detto - i telefoni sono vietati e basta. Ok, mamma. (?)
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La politica del sotto palco
Come è abbastanza noto, per esempio, nel suo ultimo tour Cosmo ha chiesto al pubblico di non utilizzare telefoni durante lo show, e ha provato a rendere esecutivo questo invito distribuendo bollini adesivi da porre sopra l’obiettivo della fotocamera. In pratica, dopo aver chiesto di non riprendere nulla nella prova generale di marzo, ha pensato bene di replicare questa pratica nelle date successive: «Non c’erano cellulari, mani, occhi e corpi liberi - ha dichiarato in un’intervista al Corriere - Ci stiamo attrezzando per ripeterlo in tutte le date, perché abbiamo capito che questa cosa cambia profondamente l’esperienza e l’energia». Nel reportage dalla data di Roma, scritto da Mattia Marzi su Rockol, sembra di capire che la norma sia stata imposta in modo molto rigoroso: con controlli di sicurezza all’ingresso e con addetti dello staff che come le maschere alla Scala vengono a redarguire energicamente e bloccare le persone che contravvengono alla richiesta, se riescono a beccarle. Marzi riporta anche di una reazione scocciata di Cosmo, alla vista di telefoni. Questo è legittimo: fino a prova contraria, è il suo concerto, mette lui paletti e divieti, e l’artista è l’autocrate della serata, uno spazio nel quale entro certi limiti (i bollini all’ingresso, lo staff che redarguisce) l’artista si può anche ritagliare un potere di intervento sulla libertà altrui. Se vai a un concerto di Cosmo, giochi secondo le sue regole: peraltro, da persona che ha visto dal vivo l’artista in passato più di una volta, la sua insofferenza verso i telefoni non è nuova. E, a questo giro, ha attualizzato la sua insofferenza personale in una pratica mutuata dalle abitudini della techno berlinese e con una specifica filosofia dietro, come ha spiegato lui stesso, intervistato da Viola Stefanello sul Post circa un mese fa5:
Cosmo racconta che per la sua percezione «ogni telefono risucchiava un po’ dell’energia sia di chi lo sollevava sia di chi gli stava attorno. Rendevano più difficile entrare in quella sorta di ondulazione collettiva». Quando il pubblico lo ascoltava, invece, «era una roba pazzesca, molto anni Novanta: vedevi solo braccia alzate, gente che sbandava di qua e di là. E quindi ho cominciato a farlo per il resto del tour, a fare questo discorso magari al quinto pezzo. Poi ho pensato che non volevo più sprecare il tempo a dirlo».
Non so cosa significhi “risucchiare l’energia”, ma è qualcosa che ripetono molti artisti quando parlano del desiderio di scoraggiare questa brutta abitudine. Però, si nota un pattern: i concerti una volta erano meglio. Può darsi, io - come dovrebbe risultare chiaro - non ricordo troppo bene quei 40-50 concerti che ho visto prima che esistessero gli smartphone. Però, posso dire che quando l’argomento vira sulla nostalgia, io sento puzza di bruciato.
Energie risucchiate
Qualche giorno fa, la collega Cecilia Esposito in un tweet scriveva così:
Questo mi ha fatto notare l’alta red flag che mi mette in allerta quando sento discorsi sull’etichetta nelle cose che riguardano la musica: la tendenza a giudicare come stupide le abitudini altrui. Partendo dalle dichiarazioni di Cosmo e leggendole attraverso questa critica di Cecilia, mi sono chiesto: è vero che non ci si gode l’esperienza se si usa il telefono per fare foto e video? La prima cosa che ho fatto è stato provare a rispondere a questa domanda: se gli smartphone fossero esistiti ai tempi dei Beatles, quanti ne avresti visti in aria durante i loro concerti? Decine e decine di migliaia, non c’è dubbio: otto anni fa Ron Howard fece un film sulla loro carriera dal vivo, dal ‘62 al ‘66, usando in grandissima parte centinaia e centinaia di filmati privati, che il pubblico aveva ripreso usando le loro camere portatili.
Smarchiamo, quindi, l’idea che la colpa di questo male sia della “generazione più scema di sempre”, cioè che l’eventuale peggioramento delle abitudini di chi va ai concerti sia dovuto a una maleducazione di fondo: semmai c’entra un diverso accesso6 agli strumenti per filmare e, di conseguenza, a un diverso modo di trattare culturalmente i frutti di questi filmati. Non possiamo, insomma, paragonare esperienze fatte in tempi completamente diversi in termini di cultura materiale. L’etic(hett)a di chi frequenta musica dal vivo nel 2024 deve essere misurata in base allo stato della cultura popolare nel 2024, non quella del 1994. Se le “rivoluzioni” di costume consistono nel riavvolgere il nastro del tempo a beneficio proprio, e non di chi quel tempo di prima non l’ha mai vissuto, queste mi sembrano piuttosto battaglie di retroguardia. E magari molti ragazzi di oggi trovano affascinanti queste convenzioni: come noi trovavamo affascinanti i tempi in cui i nostri genitori pagavano 50 lire per sentire una canzone nel juke-box; come i vittoriani trovavano affascinante il Medioevo. Ma ogni epoca ha il diritto di esprimersi secondo le proprie possibilità, in base a ciò che definisce la sua cultura materiale: se per godersi i concerti bisogna fare finta di tornare indietro di 30 anni, o comportarsi come si fa in altri contesti che non sono quelli dei concerti (le serate techno, le opere liriche a teatro), qualcosa non sta funzionando nella macchina culturale.
Ma poi chi se le riguarda le foto di famiglia?
Io ho bisogno di rivedere le foto e i video dei concerti. Mi piace pubblicarle, mi piace farne dei “contenuti” per i miei profili social che - ovviamente - sono i profili semiprofessionali di una persona che con la musica in qualche modo ci lavora da 15 anni. Mi serve anche - come dicevo sopra - per ricordarmeli meglio. Se le mie falle di memoria fossero una disabilità, prenderesti in giro le mie cattive abitudini ai concerti per questo? Ok, ammetto che questa argomentazione è un po’ forte. Ma io trovo altrettanto forzato prendere a capocciate il presente senza nessuna soluzione plausibile per chi questo presente è chiamato a plasmarlo a propria immagine, e che invece parte della classe culturale occidentale si interessa solo a stigmatizzare, bacchettare e (tentare di) ricondizionare. Prima non si stava meglio è una delle massime che guidano la mia vita che - ti assicuro - non è confortevole come era quella del me stesso quattordicenne brufoloso che non doveva cucinare tutti i giorni due volte al giorno i propri pasti7. Purtroppo, quel quattordicenne è morto 25 anni fa. Ha preso il suo posto uno che ha il doppio della massa corporea e molta più stanchezza sulle spalle.
Ma nulla mi stanca come la juvenoia, la sensazione (tipica di tutte le generazioni) che i giovani d’oggi stanno rovinando tutto. E penso che un tempo storico che riteniamo sempre più incerto, insicuro e pauroso ci stia portando a soffrire di questa juvenoia in modo sempre più acuto. Se i rappresentanti di punta di una musica che piace anche a molti giovani (Cosmo, ma anche Mitski che ha fatto simili valutazioni sull’uso dei telefoni ai concerti) dicono a questi stessi giovani che le loro abitudini sono sbagliate, potrebbero farlo semplicemente “perché è così”, come potrebbe concludere chiunque non sia abituato a problematizzare le proprie posizioni (chissà che sogni tranquilli); oppure potrebbero farlo perché hanno interiorizzato un fastidio più generale verso le storture della nostra epoca. Certo che i ragazzi fanno foto e video perché vogliono condividerli sui social, perché il presenzialismo è una chiave importante dell’esperienza dei concerti8 nella cultura in cui vivono: siamo certi che creare zone separate chirurgicamente dal resto della società dentro i concerti sia la cosa migliore per creare un dialogo tra la musica (dal vivo) e il resto del mondo? Io non credo. Magari esistono soluzioni alternative.
Un altro telefono ai concerti è possibile
TW: per un paragrafo mi esprimerò come un povero scemo da centro media, chiedo scusa.
Non sono mai stato un grande sostenitore dello user generated content, nel senso che quando da fenomeno spontaneo dal basso diventa un tentativo di guidare dall’alto l’engagement di una fanbase e una scusa per produrre contenuto di scarsa qualità, diventa un mostro che racchiude tutti i mali dell’editoria culturale contemporanea. Infatti, sfido chiunque a ricordare delle attivazioni di fan che abbiano prodotto qualcosa di decoroso. Finché non ho visto questo:
Non è niente di strano, è solo un video fatto da un fan durante un set di Fred Again che l’artista ha ripostato sul suo profilo, l’8 settembre 2021. «Oh gosh this video is beauuuuuuuutiful, so many lovely little snapshots of different feelings», dice la didascalia. Ho scoperto questo video nel bel numero della newsletter di Rob Abelow che discute proprio il modo in cui un dj e musicista emerso in una fase storica di calo del capitale culturale della dance, si sia costruito un seguito così grande e fedele. E parte di questo successo viene proprio dall’aver abbracciato i contenuti sporchi, in prima persona, un po’ caotici, che riflettono però in modo esatto e “sincero” l’esperienza di un suo show e in generale l’esperienza della sua musica. Il profilo Instagram dell’artista è pieno di post fatti così: la sua estetica è impeccabile, perfettamente in sintonia con una società che si è stancata delle foto perfette, dei set, delle promo, dei post sponsorizzati, che preferisce vivere sui social a colpi di dump di cose sporche, un po’ matte, la versione casalinga di un’iconografia che trovavi su Vice già 15 anni fa. Non che manchino foto professionali e post più posati nel profilo dell’inglese, ma non sono mai il focus della sua comunicazione. Sicuramente ci saranno anche video troppo brutti e storti per essere ripubblicati, ma quelli che in qualche modo catturano l’essenza di assistere a uno show di Fred Again fanno il salto: non più riservati alla fruizione personale, o al limite nei circoli dei fandom (come miliardi di foto e video dai tour di Harry Styles o Taylor Swift), ma parte di un racconto condiviso, alto e basso, che non viene cancellato dal profilo quando arriva il momento di annunciare un tour o un disco nuovo.
Quello che voglio dire è che se si avesse la pazienza di premiare i comportamenti virtuosi degli spettatori ai concerti, anche dove questi spettatori sono parecchi9, non solo non sentiremmo la mancanza di energia o di hic et nunc, ma forse riusciremmo ad arricchire l’esperienza di tutti, anche quelli che al concerto non ci sono potuti andare, ma magari il prossimo tour non se lo vogliono perdere. In alternativa, come ha detto qualche giorno fa Damon Albarn, puoi sempre provare a cercare di coinvolgere di più il pubblico ai tuoi concerti senza fare la polizia dei live: «Se cominci a vietare roba, a che punto ti fermi? Devi solo andare e fare il tuo. La gente non starà al telefono se la intrattieni nel modo giusto».
È solo un’ipotesi, sia chiaro. Magari, invece, continuare a lagnarsi porterà un cambiamento. Ce lo sapremo ridire.
La Pucci Weekly tornerà, sto finendo un progetto grosso, ma tornerà prima di prendersi un po’ di pausa.
Tra ottobre e novembre farà 26 date nel Vecchio Continente, tra cui prova a indovinare quante in Italia? Esatto, zero. Comincio a pensare che gli organizzatori di concerti in Italia siano semplicemente scarsi.
2008-2024: ho una teoria per cui questo lasso di tempo (il decennio lungo vs il secolo breve) sia stato decisivo nella genesi e morte di modelli di mondo, sottoculture pop, iconografie e ideologie. Sto pensando di scriverci su un saggio, ne riparleremo.
Spoiler: quest’estate proverò a ricordare i concerti che ho dimenticato. Sto già preparando il primo post e sarà uno spasso.
Nel pezzo del Post si ammorbidisce anche decisamente la posizione di Cosmo a proposito dell’enforcing di questo divieto, come dice lui stesso più avanti: «È stato un gesto perlopiù simbolico, perché le persone non venivano cacciate se rimuovevano lo sticker, ma il risultato è stato fighissimo».
Una macchinetta Super 8 della Kodak nel 1965 costava l’equivalente di 300 dollari di oggi e ogni nastro costava l’equivalente di 50 dollari di oggi: non proibitivo, ma nemmeno economico; specie perché quei filmini, poi, non diventavano parte della tua identità culturale e sociale, ma solo un memorabilia.
Andare a mangiare fuori? Non con i pochi soldi che si fanno scrivendo di musica. Quindi, perché non iscriverti a pagamento a Pucci per la modica cifra di 60 euro all’anno?
Avviso: bias del sopravvissuto. Non stai ricordando che questa cosa del presenzialismo ai concerti è vecchia come la musica stessa, e che il concetto di FOMO è stato elaborato nel 2004, tre anni prima dell’introduzione dell’iPhone.
Ormai anche Fred Again fa i concerti negli stadi, e addirittura registra il tutto esaurito nei tour dei palasport senza spendere nemmeno un euro di pubblicità. Davvero, leggi quella newsletter di Rob Abelow, è illuminante.