La musica alle Olimpiadi
L'apertura di Parigi 2024 ci ricorda che siamo un continente truzzo, rivoluzionario e queer
Domani questa newsletter compie un anno: grazie di essere qui dall’inizio, o da un mese, o da una settimana. Ho tolto il paywall al primo post, perché mi sembrava giusto, e ho messo un piccolo sconto per gli abbonamenti che scade il 28 agosto. A breve arriva un’ultima Pucci Weekly (che sarà Monthly) e poi, a differenza di tutte le altre newsletter, non vado in vacanza. (EEEE). Oggi ti racconto una cosa che ho pensato sulla musica alle Olimpiadi.
La cerimonia di apertura delle Olimpiadi cosa deve dirci? Deve farci comprendere la più autentica immagine di un Paese? La proiezione che questo Paese fa di sé sul mondo? Deve presentarci il maggior numero di cliché nel minore tempo possibile? E in tutto questo, che ruolo ha la musica?
Mi son fatto queste domande stamattina mentre recuperavo su RaiPlay la cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Parigi 2024, che non avevo visto in diretta. Mentre stavo andando a dormire, però, mi era arrivata da Twitter la notizia di una roba grezzissima e spettacolare fatta dai Gojira, band metal francese, quindi l’ho guardata subito e mi sono ripromesso di andare a vedere tutto il resto. La cosa dei Gojira, tra parentesi, è questa qua sotto: una canzone inedita, costruita intorno al canto rivoluzionario Ça ira, che si trova intitolata Mea culpa su Shazam per via di un pezzo del testo originale, ma forse si chiama in altro modo o forse non esisterà mai fuori da questo evento. Il brano comincia con quattro versi estratti dal testo cosiddetto sanculotto, una versione più esplicitamente rivoluzionaria, antiaristocratica e radicale.
Ah! ça ira, ça ira, ça ira
les aristocrates à la lanterne!
Ah! ça ira, ça ira, ça ira
les aristocrates on les pendra!
Cioè, «andrà tutto bene, gli aristocratici sui lampioni, andrà tutto bene, gli aristocratici penzoleranno». Prima che gridiamo allo scandalo della Francia melenchonista assetata del sangue dei nobili1, dobbiamo ricordare che questa versione del testo è quella resa (ulteriormente) popolare nel secolo scorso da Edith Piaf che la cantava nella produzione italo-francese Versailles in cui l’artista interpretava una delle donne andate a marciare sulla reggia dei Borbone nell’ottobre 1789, manifestazione che costrinse la famiglia reale a tornare in città per essere più vicina alle richieste del popolo.
Insomma, questo testo fu quello della versione mainstream in un’epoca che si dichiarava fieramente antimonarchica e antiaristocratica, che non aveva paura di farsi etichettare come radicale. Questo immaginario cruento non era considerato osceno dai più, era la norma per una società che aveva rifiutato con tutta la forza possibile i privilegi della nobiltà e le disumane disuguaglianze che essi comportavano. E infatti, la cantava l’artista pop francese per antonomasia, non una qualche strana estremista pescata “nei centri sociali” o fra “culti satanici”. Bisogna notare inoltre che questa stessa incisione, campionata dai Gojira per l’intro del loro pezzo, si trovava anche dentro i titoli di testa di Napoleon di Ridley Scott, il film dell’anno scorso che, tra le altre cose, ha provato a convincerci che la Rivoluzione Francese fosse una cosa un po’ brutta: per esempio arrangiando questo canto ribelle così allegro e feroce con il consueto trattamento “da trailer angosciante”. Quindi, l’inversione ulteriore della cerimonia di apertura di Parigi 2024 ha reso giustizia al messaggio originale. E ha spaccato il culo.
Guardando questo momento clamoroso di metal e coreografia (stupende le stelle filanti rosse “sputate” dalle finestre della Conciergerie, come se fossero cascate di sangue) che per molti è stato l’apice di questa cerimonia mi sono chiesto che cosa debba rappresentare la musica in un’occasione come questa.
Il paragone che molti hanno fatto sui social è stato con l’apertura delle Olimpiadi di Londra 2012. E un commento piuttosto diffuso è stato: i Francesi non hanno cantanti pop degni di questo nome, quindi hanno dovuto chiamare Lady Gaga e Céline Dion per trovare qualcuno. Ovviamente non è così, lo vedremo tra poco, ma qualcosa di interessante si può notare lo stesso a partire da quest’osservazione.
Londra 2012 non è stata un caso
Per quanto mi spiaccia fare complimenti alla nazione più snob del pianeta, la cerimonia di Londra 2012 fu abbastanza impeccabile. Anche e soprattutto dal punto di vista musicale. Certo, ovunque si poteva percepire un messaggio tanto chiaro quanto antipatico: i più fighi siamo noi, ma chi cazzo siete voi (cantato in coro). Però, onestamente, il lavoro di scelta degli artisti che si sono dati il cambio dal vivo e la selezione delle tracce della colonna sonora (dagli Who ai Fuck Buttons, dagli Underworld ad Adele, da Bowie a Dizzee Rascal) hanno saputo comunicare un messaggio di potenza che, in fondo, è il vero motivo per cui si ospitano dei Giochi Olimpici. Ovviamente si trattava di una vecchia potenza culturale, fiera del suo passato glorioso e un po’ stantio, ma pronta a mostrare con uguale orgoglio ogni ultimo cascame della Cool Britannia; una mamma chioccia che covava ogni sottocultura arrivata al successo (dal punk alla rave culture) e abbastanza furba da vendere come importantissime anche le popstar più caciarone. Quest’immagine di potenza ci si sarebbe sbriciolata tra le mani qualche anno dopo, quando Brexit ci ha ricordato che oltre Manica abita una quantità non indifferente di persone per cui tutta quest’eredità pop significa appunto un’esercizio di potenza e non un ponte multiculturale. Insomma, dodici anni fa abbiamo applaudito un Paese che ci voleva ricordare quanto fosse superiore a tutti gli altri e il problema è che ci hanno creduto un po’ troppo e si sono andati a schiantare ubriachi contro un albero. Non parlo, naturalmente, solo di una questione politica: nell’ultimo decennio la cultura pop britannica non ha avuto minimamente lo stesso impatto che ebbe nei decenni precedenti; perfino i portatori di una delle ultime grandi innovazioni (PC Music) sono quasi tutti in pianta stabile a Los Angeles. Il che ha posto le condizioni per tante altre cose interessanti, più sotterranee: magari quando torneranno a ospitare delle Olimpiadi tra una sessantina d’anni, chi ci sarà sentirà celebrati Shabaka Hutchings e gli IDLES, gli Sleaford Mods e Nia Archives; per ora, siedono all’ombra della nostalgia di un ex impero.
Vista in questo contesto, cosa ci dice la cerimonia di Parigi 2024? Intanto, sentiamo le canzoni che sono state proposte (o almeno, quelle che son riuscito a beccare io con l’aiuto di Shazam e della mia memoria).
La Francia canta da sola
Intanto mi pare che nell’economia generale dell’evento abbia avuto molto peso la partitura originale di Victor Le Masne, intrecciata ai brani di repertorio pescati dalle varie epoche e dai vari contesti: dal barocco di corte all’impressionismo post-restaurazione, dalla disco-funk anni ‘70 alla neo-classica pretenziosa; contesti che si sono succeduti in modo più concettuale che non cronologico durante la parata di barche, che forse poteva essere usata invece per fare proprio un excursus storico, prendendo alla lettera la metafora eraclitea del tempo che scorre.
Pur saltando qualche periodo storico (mi pare che degli chansonnier e dello yé yé si sia sentito ben poco), la carrellata ha evidentemente messo in luce i contributi della musica francese al patrimonio culturale globale. Ma non è stato tutto catalogo. La canzone Mea Culpa dei Gojira non è stato l’unico inedito, per esempio: a un certo punto Aya Nakamura ha mescolato la sua Pookie2 (che in Italia è arrivata grazie a un remix-featuring con Capo Plaza) con un adattamento di For Me Formidable di Charles Aznavour. E poi il trapper Rim’k del celeberrimo trio 113 ha cantato una canzone inedita che secondo Shazam si intitola King. Più avanti abbiamo sentito anche nuovissimi brani di Nicky Doll e Philippe Katerine.
Se i nomi non ci dicono niente, non c’è nulla di strano: non conosciamo abbastanza lo scenario pop francese. E questo si spiega così: viviamo in un mondo localista, dove il genere di tendenza in America è il country e ogni Paese ascolta solo sé stesso. Lo sottolinea anche l’ultimo report di metà anno di Luminate: i Paesi con artisti più ascoltati nel mondo (USA e UK) sono quelli che perdono in percentuale più spazio sul mercato globale, mentre salgono quelli con una forte identità nazionale (tipo la Francia, appunto). Questo non accade perché il resto del mondo ascolti musica francese, altrimenti avremmo riconosciuto ogni artista in scena: ma perché sempre più francesi ascoltano solo francesi. In Italia accade lo stesso, una monocultura nazionale che ci fa sentire fieri quando vediamo - che so - Salmo o Geolier in cima alle playlist globali di Spotify con i migliori debutti, quando il loro unico significato è che tutti gli italiani stanno ascoltando in sincro la stessa roba. Per la discografia italiana tutto ciò è ottimo: quello che investe, bene o male, ritorna. Per noi ascoltatori, forse, una dieta così poco varia non fa bene. Anche perché, appunto, ascoltare solo sé stessi significa avere meno chance di farsi ascoltare dagli altri - tranne quando arriva l’Eurovision Song Contest. E quello sarebbe tutto un altro discorso da fare, ma non oggi.
Non è che sia finita la bella musica internazionale da ascoltare: c’è un piano industriale molto preciso dietro, volto a consolidare i mercati locali. Così, quello che si può esporta, non arriva ai risultati del pop da esportazione di un tempo, e non certo per demeriti artistici: 30 anni fa un Marco Mengoni avrebbe fatto tour negli stadi dei paesi ispanofoni, oggi no. Però in Italia va da dio, e questo basta. Uno dei Paesi pionieri dell’investimento locale, citato spesso a modello per certe regolamentazioni isolazioniste, è proprio la Francia. La legge che regolava le quote di musica in lingua francese imposte alle stazioni radio ha 30 anni, e da un po’ di tempo provoca mal di pancia alla radiofonia d’oltralpe. In ogni caso, oggi i risultati di questo globalizzato sistema di autarchie musicali li avvertiamo quando mettiamo su la cerimonia d’apertura delle Olimpiadi e ci chiediamo chi diamine siano certi artisti. Quindi, possiamo arrivare a una prima conclusione: la cerimonia di Parigi 2024 ci comunica che la cultura francese contemporanea va forte in Francia ma non tanto altrove. Il che non significa che non esista musica francofona o francigena che spacca: basta chiudere gli occhi e fingere di vivere nel secolo scorso.
Altri fantasmi del passato
La parte più intensa della cerimonia di ieri in termini di presenza di canzoni d’archivio è stata la sezione in forma di dj-set + sfilata arrivata a poco meno di due ore dall’inizio. Mentre scorrevano i barconi, abbiamo sentito una selezione di brani usciti grosso modo tra il 1979 (Spacer di Sheila) e il 2011 (Kass Limon di Jupiter e Kassav), con un focus piuttosto netto sul pop danzereccio e la musica da ballo vera e propria, dalla French touch di Alan Braxe e Stardust alle one hit wonder simil italodisco di Ottawan e Bibi Flash passando per le tamarrate di David Guetta e Justice. Qui e là si son sentite una serie di chicche anni ‘80 di Daniel Balavoine, Les Rita Mitsouko, Véronique Sanson e compagnia. In chiusura due glorie, una passata e una moderna, che hanno accompagnato il passaggio del barcone francese, Johnny Hallyday e M83.
Il messaggio è che tra anni ‘80 e anni ‘00 si è sentito il meglio della musica francese, e tutto il resto lascia (letteralmente) il tempo che trova. Niente GIMS né Christine and the Queens che pure è una grande performer; niente Slimane né JAIN neppure con la spinta di TikTok dell’anno scorso. I Daft Punk si sono sciolti, quindi anche con loro nulla da fare. Figuriamoci cosa si poteva sperare da artisti di nicchia come Air, Phoenix, La Femme, Myd o la mia amatissima Camille. Questa roba non la conosce nessuno, e comunque non si presta a un messaggio più importante.
un’altra lettura a tema olimpico
Europa a trazione francese
Alla fine di questa carrellata franco-centrica, è arrivato un momento interessante e non privo di un messaggio ideologico: partendo con The Final Countdown degli Europe, si è visto un momento dedicato all’identità europea. Sempre dentro la finzione scenica del dj-set + sfilata abbiamo sentito una selezione di particolare presa per la generazione X, la stessa che attualmente è al potere in buona parte degli Stati del Continente; un momento di tamarraggine post-Maastricht, che potremmo chiamare vibe Erasmus. Forse per assecondare il messaggio di integrazione politica europea di Macron, forse perché la nostalgia degli anni ‘90 è più potente della forza di gravità, la cerimonia ha dedicato una buona parte dello show a una serie di tracce dance molto truzze, spesso italiane, sicuramente eurodance: una cosa simile mi sembra di ricordare fosse stata fatta - correttamente - a Torino 2006, quindi tanti auguri a chi dovrà organizzare la cerimonia di Milano-Cortina 2026 senza ripetere Torino e senza dare l’impressione di aver copiato Parigi.
Di fronte a quei beat dritti come un fuso e a quelle tastierine Korg M13 sembrava di assistere alla teogonia dell’Eurovision Song Contest: non solo come coagulazione di un gusto musicale, ma come affermazione di una verità di fondo sullo spirito dell’Europa. Cioè, che potremo pure abbracciare tutti i cliché puzzoni e snob (e qui Parigi li ha messi tutti, dalla Vie en Rose al croissant, dal can can ai ménage à trois); che potremo pure mostrarci raffinati e di gran gusto; ma nel fondo finiremo sempre per adorare le cose buffe e volgari, sguaiate e spassose. Che l’Europa è la terra del Chiasso4, una fiera di paese che molti ci invidiano per le ragioni sbagliate - non le persone che guardano ESC fuori dal Continente, loro lo sanno già.
Una caratteristica fondamentale di questo nostro amore per il caos è la queerness: la partecipazione in questo segmento della drag queen francese Nicky Doll (con il suo singolo I Had A Dream che interpola pesantemente Parole parole) ci dice tutto quello che i commentatori Rai non hanno avuto il coraggio di sottolineare, cioè la queerness estrema di questo messaggio di unità culturale. Ma anche qui stiamo parlando per lo più di un passato, o meglio del riflesso di un passato libero e selvaggio su un presente un po’ spaventoso e incerto: anno dopo anno ci ritroviamo a ballare la dance anni ‘90 costringendoci a ricordare quel periodo come una fase felice della nostra storia individuale e quindi di tutti quanti. Ed è questa, secondo me, la debolezza di fondo della cerimonia di ieri: non la volgarità, non la confusione, non la teatralità, ma la difficoltà di uscire dalla sensazione che tutto quello di buono che c’è oggi è un riflesso del passato; dall’idea che la memoria di un consumo culturale individuale sia sufficiente a fare da collante per il presente. Anche per questa ragione, credo, molti si sono esaltati per il momento dei Gojira: perché ci hanno implicitamente ricordato che ancora oggi si può lasciare un impatto sulla società, che si può cambiare anche radicalmente il nostro mondo, non accontentandoci delle battaglie del passato, ma rinnovandole nel presente, portandoci dietro il messaggio ma scrivendo nuove forme e nuovi contenuti. E poi, perché hanno spaccato il culo.
EDIT
Molti conservatori alla frutta stanno leggendo messaggi anticristiani nella messinscena (impeccabile) di Philippe Katherine nei panni di Dioniso, o Pantagruele, o quello che è. Io credo che la sua rappresentazione pagana di piacere e concordia abbia fatto così effetto proprio perché era un ingresso tumultuoso del presente dentro quell’atmosfera così da revival. Fintantoché la queerness è un concetto astratto e remoto, al pari dell’idea cristiana di società di certi suprematisti sotto false spoglie, si può fare un confronto equilibrato, andare a misurare la propria idea di età dell’oro con quella di qualcun altro, e così vivere ciascuno nella propria illusione. Ma quando quella queerness irrompe nel presente, e canta guardandoti in faccia, beh, non puoi più nasconderti e devi tirare fuori tutto il tuo bigottismo. Quindi, mossa eccellente degli organizzatori e coreografi: non tutto il presente è perduto!
Il meglio e il peggio
Chiudiamo facile, con la cosa che mi è piaciuta di meno e quella che mi è piaciuta di più (a parte i suddetti Gojira). Una cosa davvero brutta è stata la cover di Imagine: basta con questa canzone, riproposta in mille salse ma tutte ugualmente sciape; questa canzone vittima della sua stessa semplicità; facciamo che abbiamo capito il messaggio e non ce la propinate più per un decennio, grazie. Una cosa davvero bella è stato il culmine della cerimonia, poco prima del gran finale di Céline Dion5 con l’acuto sulla Tour Eiffel con una canzone di Edith Piaf (madonna il clichometro si è rotto!): mi riferisco alla versione estesa di Supernature di Cerrone per ricordarci quando in Europa gente come lui e Moroder provavano a immaginare un futuro che è passato via in un lampo, un futuro dove non erano solo inglesi e americani a dettare legge, ma dove tutti condividevamo una cultura pop anche se avevamo molti meno mezzo di comunicazione multimediale. Sarà il caso di ricominciare a progettare quel futuro.
Per qualche imperscrutabile ragione oggi rivediamo nella nobiltà ancien régime la stessa inettitudine e pervicacia bigotta, lo stesso privilegio e rifiuto dei problemi della gente, la stessa carica aspirazionale e distanza siderale dei miliardari odierni. E quindi la ghigliottina a qualcuno sembra ancora troppo crudele.
Che per pochissimo non è l’inno ufficiale di questa newsletter!
Qualcuno ci ha scritto su un articolo, sul Korg M1, e quel qualcuno sono io!
Non intendo la località svizzera meta di tante gite di bigiatori milanesi e brianzoli.
Molto contento per lei che è riuscita con l’aiuto di tutti i suoi milioni a tenere testa alla sindrome della persona rigida. Un bel momento per ricordarci di quanto è importante una sanità pubblica funzionante.
Devo dire che da vecchia quanto le piramidi Cerrone un po' mi ha commosso