PW36: l'autenticità è solo un'altra storia
9-15 novembre: 070 Shake; Wallice; Poppy; Warmdüscher; FLO; il "caso" Lorenzza
Anche questa settimana siamo andati lunghi, e usciamo quando la nuova musica è già fuori. Non è strano, dato che - come rilanciato da sentireascoltare - ogni giorno esce una quantità di canzoni paragonabile all’intero 1989. Ne ha parlato anche Shawn Reynaldo su
, legandolo alla progressiva scomparsa delle recensioni di dischi. Questa newsletter, nonostante questa crisi e nonostante tocchi ormai lunghezze disumane, non vuole perdere l’abitudine di scambiarsi opinioni su quello che si ascolta. Perché, alla fine, gli ascoltatori sono la maggioranza, la musica siamo anche noi, e - come vedremo più avanti - c’è bisogno di parlare, e di farlo prendendosi tutto il tempo necessario. Perché ridurre tutto a consumo («sulle piattaforme trovi tutto, non hai bisogno di una guida») e tradurre ogni ragionamento in meme e caroselli di Instagram, dove ogni nuance è destinata a perdersi, non ci ha portato a una bella situazione: l’ignoranza regna, e stiamo parlando di qualcosa la cui competenza non è difficile da ottenere, non è meccanica quantistica. In parte ci torno più in basso, riferendomi a uno scandalo avvenuto sulla scena musicale italiana nei giorni scorsi (ci rileggiamo sotto o direttamente sul sito, visto che questa mail sarà certamente troncata). Ma ora, torniamo alla nostra antiquata occupazione: parlare di cos’è uscito venerdì scorso.Qui sotto trovi la playlist New Music Pucci con le canzoni che mi sono garbate la settimana scorsa (qua se usi Apple Music), mentre nel Cestone Pucci trovi tutte le selezioni delle settimane precedenti.
Cos’è uscito venerdì
Tra i cliché musicali, che mi piacerebbe vedere indagati da The Art of Cover Art c’è quello per cui un disco che ha in copertina una foto in bianco e nero, possibilmente un primo piano, andrebbe automaticamente preso sul serio, perché nulla dice autentico meglio di quest’estetica. Questa settimana sono usciti almeno tre dischi con copertine di questo tipo, e messaggi paragonabili. Shawn Mendes, in particolare, ha calato tutte le briscole che aveva intitolando il suo album Shawn, e nulla dice “vero” e “senza filtro” quanto usare il nome proprio, quello con cui si pubblica musica da una dozzina d’anni magari. L’autenticità, insomma, è parecchio popolare in questo momento.
Ma di questi dischi non parleremo molto, perché c’è un altro album, con una copertina in bianco e nero da cui preferisco iniziare. Ma sull’autenticità, vedrai, torneremo più avanti.
070 Shake, Petrichor
Nel gennaio del 2023 cercavamo di capire come mai Lil Yachty, a tutti gli effetti un artista hip-hop, avesse pubblicato un album così pienamente rock e psichedelico come Let’s Start Here1. Ora, ha senso chiedersi come mai 070 Shake faccia un disco così classic come Petrichor? Dobbiamo arrenderci al legame biunivoco tra novità di stile e novità di messaggio, o dobbiamo capire che non è così semplice? E soprattutto, dobbiamo stupirci? Perché, se è vero che l’artista del New Jersey ha iniziato cantando sopra beat trap abbastanza schietti, tutto sommato anche quando collaborava proprio con Yachty, già il disco di debutto che l’ha presentata al mondo un secondo prima che ci chiudessero tutti in casa, Modus Vivendi, era un lavoro relativamente classic: strapieno di chitarre, spinto da beat che non hanno la claustrofobia degli anni ‘20 ma anzi respirano, il lavoro stiracchiava verso le liquide e rilucenti pozze del rock psichedelico i canoni (già piuttosto retro) dello stile che abbiamo chiamato emo rap. Se consideriamo che quel disco conteneva un singolo di lancio esplicitamente citazionista degli anni ‘80 come Guilty Conscience (voci riverberate spettrali; strofa piano, ritornello forte; sintetizzatori di caramello), capiamo anche perché questo nuovo disco non debba chiedere il permesso di assomigliare tanto ai Depeche Mode, per esempio (Elephant, dove il giro è quasi lo stesso di Enjoy The Silence, con tanto di arpeggio sull’accordo minore alla Martin Gore2).
Di Petrichor mi dispiace principalmente il titolo (“l’odore prima della pioggia”), che è uno di quei concetti leggermente abusati dai creativi nell’ultimo decennio, un po’ come le fratture dorate del kintsugi, le cicatrici, la metamorfosi delle farfalle, e così via. Per il resto è un lavoro strabordante, ambizioso, massimalista, come Daniella Balbuena ha detto in modo implicito con un video di lancio esagerato e un featuring di Courtney Love: la sottigliezza non è di questo mondo. In questo senso descrive l’epoca musicale nella quale siamo entrati quantomeno dalla brat summer in avanti, se non prima3, e lo fa meglio di altra roba che può sembrare stilisticamente più a fuoco. Non dico che sia un centro pieno: le due andature ritmiche di Vagabond, continuamente oscillanti, danno un po’ di nausea; la sottile accelerazione tra Winter Baby e New Jersey Blues non ha diritto di cittadinanza nella musica quantizzata4 di oggi (e per questo non ti piace?); lo switch al doppio tempo di Into Your Garden, ugualmente, può disorientare, ma il fatto che avvenga precisamente sull’acuto del refrain secondo me è un tocco magistrale. In generale, le strumentali suonano grosse e cavernose, con un riverbero che vuole farti sentire solo e freddo in un grande spazio vuoto, anziché carezzato da una voce divina. Le melodie, anche nei pezzi più dispersivi (Song To The Siren), sono a fuoco e coinvolgenti. Le interpretazioni sono vulnerabili, specie in What’s Wrong With Me dove puoi quasi sentirle sbuffare le parole - peraltro ha un break industrial gregoriano che slappa. Voglio dire che questo è il disco dell’anno? No, voglio dire che devi ascoltarlo. E arrivare con pazienza fino alla fine: mentre sgasa l’assolo di chitarra di Love, capirai che stai sentendo una sorta di remake/reinvenzione di Purple Rain, e a questo punto avrà più senso perfino la citazione del petricore. E, secondo me, sarai felice.
Ascolta Petrichor su Bandcamp, Spotify e Apple Music
Altri album
The Jester di Wallice descrive in modo preciso cosa contiene questo debutto. L’anno scorso ti segnalai l’ottimo singolo Loser At Best e quest’anno I Want You Yesterday, ma quest’artista californiana (con radici giapponesi) da un paio d’anni portava già in giro il suo indie pop tanto intimo quanto sarcastico e giocoso. Sufficientemente istruita in composizione e arrangiamento da dare al suo stile rilassato e al suo canto morbidoso (“bedroom”, davvero) qualcosa in cui affondare i denti, ma non abbastanza da dimenticarsi che sta giocando al pop: il che significa che da una parte le melodie sono appuntite e appiccicose, dall’altra hai la sensazione tangibile (probabilmente ottenuta con workstation virtuale) che ci sia dell’aria nella stanza, che gli strumenti siano tangibili e suonati da esseri umani, e che ti sta cantando una persona in carne e ossa: insomma, mi sono trovato a riascoltare questo album più volte di quanto non avrei pianificato, per il semplice fatto che suona bene ed è un piacere da sentire (per quanto forse troppo lungo di un paio di tracce). Clown Like Me con Albert Hammond Jr. è un bangerino, The Hardest Working Man Alive subito dopo dimostrano che riesce a tenere il filo di questo indie rock sbarazzino e depresso anche senza ospiti famosi.
Ora, io non sono il più grande esperto di Memphis rap, quindi non mi metterò a disquisire sulle sottigliezze della produzione di King Of The Mischievous South, edizione accresciuta di quel vol. 2 che in estate diede un sequel al mixtape vol. 1 del 2012, ma ascoltare Denzel Curry in pezzi come ULTRA SHXT con Key Nyata è una delizia. La quantità di variazioni sul flow che puoi sentire a un certo punto ti farà pensare non più a una voce umana, ma alla batteria suonata da qualche drago come Art Blakey: perdi di vista sullo sfondo il beat e vieni coccolato/malmenato dalla sottile e devastante arte del rapping.
A proposito di rap, Afrikan Alien di Pa Salieu è il disco che l’artista del Berkshire originario del Gambia ha realizzato non appena uscito di prigione, dove è stato detenuto per quasi due anni, per ragioni che non mi metto a discutere, ma forse non proprio giuste. L’album parla delle conseguenze tangibili dell’ineguaglianza e della repressione contro l’africano, andando davvero al cuore del problema, all’agonia di questo rigetto completo da parte di istituzioni e società che ti vedono come un pericolo, mentre cerchi solo di vivere la tua vita ritagliandoti un senso di identità, di felicità, di fratellanza. Questo motiva in parte anche la diaspora musicale (tra afropop e grime), che ci dona aperture melodiche straordinarie e arpeggi highlife (Round & Round) e un gran finale pieno di soul e gospel (YGF). Ho dato un ascolto rapido a Personification di Maxo Kream e non mi ha sconvolto: Cracc Era, già segnalato e inserito in playlist, resta la chicca del disco.
Alla fine dell’anno scorso, ti consigliavo un disco del gruppo grindcore Full Of Hell, e mentre ci avviciniamo alla fine di quest’anno te ne consiglio un altro: il disco Scraping The Divine realizzato dalla band americana con Andrew Nolan. Trattandosi di musica metal piuttosto feroce (e cavernosa, melmosa, atroce), non è che possa mettermi qui ad argomentare troppo a suo favore: devi avere un interesse nella roba che ti fa sanguinare le orecchie, o vai pure oltre. Ma ti dirò che è un ascolto molto proficuo, se senti il bisogno di qualcuno che ruggisca al posto tuo contro le cose che non vanno nella vita. In questo caso, la vita stessa e l’idea che si possa definire sacra o meno in modo arbitrario, lasciando così l’umanità intera priva di bussola morale e di un qualsiasi senso di verità. Robette così, insomma.
Quando ho visto che il nuovo disco dei Warmdüscher, Too Cold To Hold, era introdotto da Irvine Welsh, ho deciso di dare una chance a questo collettivo londinese che non mi ero mai calcolato troppo. Quando ho visto che in mezzo c’era anche la mia amata Lianne La Havas, mi sono dovuto inginocchiare sui ceci. Questo disco è uno spasso: funky, glaciale, nevrotico, efferato, sinuoso, metropolitano. Una delizia per chi cerca una musica priva di alcuna fedeltà agli stili (garage rock, post-punk, punk-disco) ma una fiducia ferrea nella capacità del suono e delle parole di dipingere scene. Un lavoro solido come un mattone nei denti dall’inizio all’ultima caotica traccia. Da ricordarsi per le liste di fine anno.
Se hai bisogno di un disco per tirare tutto fuori, prova con Sniff More Gritty di Du Blonde, che trasuda sicurezza di sé e voglia di spaccare il naso a chi ti tratta senza rispetto. L’artista l’ha arrangiato e suonato tutto da sé (batteria esclusa), e ha tirato fuori un disco punk asciuttissimo ma non avaro di dolcezze, da cantare a squarciagola (il ritornello di Solitary Individual con Laura Jane Grace è difficile da togliersi di dosso), ma anche con i momenti down al posto giusto, che sembrano venuti fuori da un musical (Out Of A Million).
Se vuoi ascoltare del jazz piuttosto spirituale, Daughter Of A Temple di Ganavya è una discreta uscita: lei è una cantante e musicista nata a New York ma cresciuta nel sud dell’India, e potresti averla incrociata se hai visto qualcosa del concerto del dicembre scorso (il debutto live!) dei SAULT. Qualche tempo fa ha invitato una trentina di musicisti a Houston (tra cui Esperanza Spalding, Shabaka Hutchings e Vijay Iyer, ma anche il regista Peter Sellars) per un ritiro spirituale/sessione che è diventata questo disco dove un tipo di musicalità jazz ipnotica e viscerale si unisce alle tradizioni di culto Tamil. Il riferimento ad Alice Coltrane non solo è chiaro, ma esplicito, nella terza parte del lato B, un’unica sessione intitolata A Love Supreme, tre parole che del disco sono letteralmente il mantra. Il viaggio può interessare o meno, ma la sua voce è effettivamente straordinaria, quindi un ascolto glielo darei comunque, se sei nel mood.
C’è ancora spazio per girl e boy band nel pop occidentale? Non è che - come scrivevo su Quants un po’ di tempo fa - questo lavoro se lo sono preso e l’hanno migliorato i coreani? Riusciamo a digerire il loro funzionamento in un’epoca terrorizzata dalle “industry plant”? Le FLO vorrebbero riprovarci, e il debutto del trio britannico, Access All Areas, ha sicuramente il merito di tuffarsi di testa nella missione impossibile di riavvolgere il nastro del tempo e riportarci a un’epoca (che percepiamo come) più innocente, quando un disco pop poteva essere un’esperienza da godersi da capo a coda, perdendosi nella mitologia generosamente cosparsa negli skit e negli intro (quello recitato da Cynthia Erivo ha anche il merito di dichiarare palesemente i modelli: Destiny’s Child, Sugababes e SWV). Non che le girlband siano scomparse del tutto: le ultime rilevanti, Fifth Harmony e Little Mix, sono in pausa e vengono da quel boom di inizio anni Dieci che ci diede anche gli One Direction, ma la macchina di Simon Cowell si è inceppata, e l’attenzione sta altrove. Le FLO intendono ridare rilevanza all’argomento. E se tutto questo può sembrare troppo meta, troppo “consapevole”, ti ricordo che anche l’esplosione R&B/pop di fine ‘90 giocava esplicitamente con il concetto di autenticità (rieccola), citazionismo, messinscena. Le FLO non perdono troppo tempo a strizzare l’occhio - ma lo fanno eccome, tipo quando dicono “This song ain’t for everybody” nell’elettrico finale I’m Just A Girl. Per il resto, le tre ragazza vanno dritto al punto: armonie vocali perfette, flow ritmici coinvolgenti degni della Beyoncé del secolo scorso, atteggiamento “sassy” ma anche vulnerabilità, occasionale ospitata rap. Insomma, c’è tutto il cucuzzaro del genere che oggi chiamiamo k-pop - vedi che lo sappiamo fare anche noi… Lo ascolterai in palestra? E chissenefrega, non è che tutta la musica devo stravolgerti la giornata, abbiamo giornata già piuttosto dense. Ma questo non vuol dire che sia musica da buttare via. Specie considerata la qualità delle produzioni di MNEK (co-responsabile di due delle canzoni pop migliori del decennio scorso), che riescono a condensare lo zeitgeist sonoro di questi anni, alla faccia della nostalgia (che c’è, naturale, ma va governata).
Se però vuoi una visione ancora più destrutturata della femminilità e del pop, ti posso consigliare Young-Girl Forever dell’americana-austriaca Sofie Royer, che per il suo terzo album ha deciso di concentrarsi sull’idea che la società ha delle donne (ehi, è il mese in cui in Italia ci ricordiamo della violenza sulle donne, pazzesco eh?). Synth granitici e osservazioni filosofiche sulle illusioni e le convenzioni che ingabbiano le donne, dalla vita sessuale (Indoor Sport) al paternalismo (Young-Girl Illusion) per prendere a calci negli stinchi il patriarcato.
Cincinnati Ohio è il primo disco dei Wussy dopo la morte del loro chitarrista John Erhardt, quindi è un lavoro con un’atmosfera piuttosto densa sulla testa. Se non hai mai sentito di cosa è capace questa assoluta istituzione americana (meno prolifica dei Guided By Voices, meno famosa dei Wilco, ma comunque da non sottovalutare), prova a partire da qui e poi torna indietro. I due leader del gruppo, Chuck Cleaver e Lisa Walker, hanno quelle voci da sirene che non si sa come ti impongono l’attenzione, e la scrittura è puntuale ma aperta alle infinite possibilità, com’è secondo me tutto ciò che suoni veramente americano: la citazione precisa di una serie TV degli anni ‘70 (come quelle che Walker guarda a ripetizione, ho scoperto da quest’intervista) e lo storytelling in cui ti vuoi calare (The Night We Missed The Horror Show, dove due che fanno tardi al cinema finiscono per passare la notte insieme e pensare “meglio così”); le suggestioni dreampop e shoegaze, ma pure il twang del country. Un disco che scorre come un fiume.
Se ascoltavi i Linkin Park principalmente per le vibe e le strumentali, il nuovo album con la nuova frontwoman Emily Armstrong, intitolato From Zero, fa per te. Se eri fan di Chester Bennington, salta pure. Chi è nel mezzo, come me (li ho sempre trovati una straordinaria band di pop depresso e distruttivo, portato avanti da melodie indimenticabili e una produzione furbissima), se lo ascolta una volta e poi passa oltre. Non perché manchino “i pezzi”, ma perché non ci ho trovato quasi nulla di nuovo pur in una combinazione che l’avrebbe permesso (hanno cambiato anche il batterista): per dire, mi piace l’andamento dub e la costruzione lenta di Overflow, che nell’acuto (grazie anche all’eco) non ha quell’effetto “schiaffo in faccia” tipico dei LP, ma non posso giurare che la riascolterò domani. Cosa che, invece, non potrei dire per Negative Spaces di Poppy, forse il primo disco pienamente azzeccato dall’artista che ha avuto un’evoluzione paragonabile a quella dei social in cui è emersa e sbocciata: dal meme alla tragedia. Ricordo che mi era piaciuto l’EP Stagger del 2022 e ho completamente ignorato Zig uscito lo scorso anno. Ma oggi ritrovo un’artista che canta con una voce potente, che (giocando anche con l’autotune) prende per le corna le strumentali a fortissima componente industrial e metalcore (produce un ex componente dei Bring Me The Horizon, Jordan Fish). La sua voce è credibile, nel senso che quando le scappa dai denti la “V” di “giving up” in the cost of giving up, ti ricordi che il growl è una tecnica vocale fatta per esprimere prima di tutto uno sfogo, e poi eventualmente il testosterone. Che dire: l’apertura del ritornello in they’re all around us è eccellente; il carattere così “emo” del ritornello di surviving on defiance, mentre tutt’intorno cresce il volume. Qualcuno ha trovato il suo groove, buon per Poppy!
The Crossroads di Cordae è uno dei dischi con la copertina che vorrebbe gridare “verità”, ma quanto possiamo considerare sincero e senza filtro un disco che vive nell’ombra del chipmunk soul rap? Comunicare l’autenticità è una tecnica, e questo disco non ce l’ha: ma ne ha altre, perché Cordae è un MC eccellente, e ascoltare la storia dell’audizione di sua madre ad American Idol in 06 dreamin è un’esperienza toccante, che paradossalmente viene contraddetta dall’immagine di copertina che sembra evocare emo-rap e rincoglionimento narcotico. Un progetto confuso che non si merita la hit nostalgica che è summer drop con Anderson .Paak. Shawn di Shawn Mendes (anche lui con una copertina serissima), invece, non ho avuto tempo di sentirlo: quindi, se c’è qualcosa di buono vieni a dirmelo nei commenti.
L’EP REACTOR raccoglie quattro singoli del progetto digital hardcore femtanyl (nome eccelso) pubblicati negli ultimi mesi. Io me li ero persi tutti, quindi posso consigliarti WEIGHTLESS che era uscita ad aprile, ma anche M3 N MIN3 uscita a ottobre (ero in Giappone!) con uno stupendo featuring di Danny Brown: un concentrato di follia. Un altro EP degno di nota è l’eponimo debutto della malese di base a Londra Chloe Qisha, che altalena tra synth-pop spigoloso (I Lied, I’m Sorry) e ballate in minore (VCR Home Video) infilando in mezzo una traccia pop-punk come Evelyn da studiare per chi vuole rivitalizzare il genere. E a proposito di nuovo punk inglese, l’EP Empty Space di Peter Xan ha delle ottime chitarre grasse (Nicotine) e un personaggio principale che non sembra tirarsi indietro per un secondo. Di Chelsea Wolfe ti avevo consigliato il disco She Reaches Out To She Reaches Out To She, ma era la settimana di Sanremo e mentirei se dicessi che vi avevo dedicato la mia intera attenzione. Meno male che ha pubblicato l’EP Unbound, con una selezione di brani di quel disco in versione acustica (quindi ancora più “dark folk”, se ti piace quest’etichetta) più una cover di Cellar Door della band metalcore Spiritbox. Non c’è nemmeno uno dei brani che ti invitai ad ascoltare, quindi, come dire… bravo Pucci. Comunque, funziona.
L’osservatorio k-pop della settimana passa dal nuovo EP di Yves (già delle Loona), intitolato I Did: si apre con un bangerone vagamente hyperpop, intitolato Viola. E se hai tempo solo per un pezzo, fermati pure qui, anche se il groove (sicuramente meccanico, ma dal feel piuttosto umano) di Gone Girl e Tik Tok è ineccepibile. Ho molto da eccepire, invece, sul mini-album solista di JIN dei BTS: Happy, ma parla per te, caro mio, e tieniti il tuo pop-rockaccio blando, buono giusto per una recensione su Rolling Stone. Infine, il nuovo disco giapponese degli Stray Kids, GIANT, ho come l’impressione di averlo già sentito dodici volte.
Cosa non ho ascoltato abbastanza sono tre dischi - half•alive, Persona; Flat Party, It’s All Been Done Before; The Green Child, Look Familiar - che mi prometto di rimettere su, ma per ora mi sono parsi molto buoni nella loro - rispettiva - stranezza nervosa, ricchezza glam ed eleganza frusta. Da risentire.
Italo dischi
Nei giorni scorsi si è creato un “caso” intorno alla giovane rapper Lorenzza, che ha pubblicato in questi giorni il suo disco di debutto, A Lorenzza: venuta “dal nulla”, questa ragazza di origine brasiliana ha stupito molti non solo per la sua bravura, ma anche per il sospetto che sia un progetto “creato” a tavolino. Apriti cielo. Qui non voglio oberarti con le mie riflessioni al riguardo, quindi ho scritto un altro post che manderò domattina (giuro!) per spiegare dove sta il problema, secondo me, mentre qui continuiamo con i dischi. A proposito, com’è questo album? Un buon lavoro, con un gran gusto nel selezionare producer giusti per il timbro e le cadenze ritmiche naturali della voce della rapper: insomma, ha quella sensazione di naturalezza e credibilità che, al netto delle polemiche, non è possibile comprare nemmeno con il budget più nutrito. Il suo modo di sincopare le sillabe è fluido, e tira fuori il groove anche nei pezzi con i beat più trap/drill (Goat Bitch, una micro-storia del rap italiano): non mi sembra che sia in difficoltà con nessuna metrica, né viene sopraffatta dalle strumentali più complesse. Non è un disco perfetto: lo storytelling funziona, ma sembrano più sketch che non ritratti completi; anche perché (altro problema) i brani sono molto brevi, per il mio gusto. Ma il potenziale è enorme.
Passando oltre, Ascoltare gli alberi è una bell’occasione per ricordarsi che Vasco Brondi non è solo capace di infilare 1500 parole in una canzone (chi sono io per dare a un altro del prolisso?!), ma che la sua musica ha una qualità intrinseca anche senza parole. Che comunque abbondano, anche in questo disco di canzoni e musiche ispirate al film Fiore mio, scritto, diretto e interpretato dallo scrittore Paolo Cognetti. Segnalo anche l’EP Luna in acquario ascendente sagittario (qualsiasi cosa significhi) di Prim: ti avevo già consigliato 206, e le altre nuove canzoni dimostrano che dietro la semplicità minimalista del suo bedroom c’è una voce magnetica che potrà dire grandi cose in futuro.
Chiudo con Ghost di Shiva Bakta. Il primo singolo I Don’t Know Why te l’avevo consigliato subito, ma poi il musicista l’ha tolto dalle piattaforme per ragioni che non ricordo e che non voglio chiedere direttamente all’artista (che conosco); io lo reinserisco d’ufficio nel Cestone di quest’anno, perché è la dimostrazione che se non ci si arrende a una facile soluzione e si cercano tutti gli incastri di tempo e armonia che esistono, si può creare una canzone che suona familiare ma anche aliena (tra gli Smashing Pumpkins e le strane progressioni del j-rock, mi pareva di averla definita). Serve una fiducia incrollabile nella musica come strumento di scoperta, e non solo come martello per inchiodarsi le opinioni che già abbiamo. Per esempio, che il pop sia una roba facile, precotta, già sentita. Certo, dai Blue Nile agli Steely Dan, c’è tutta una serie di influenze che informano la produzione di Lidio Chericoni; ma ogni scelta - da quando far partire il break strumentale di Coat a come armonizzare su Pieces Of Infinity (forse la perla del disco) - è dell’autore, un atto libero e consapevole così come mettere in fila le parole che ti stanno dicendo esattamente la stessa cose: la vita è una cosa terribile eppure ci ostiniamo a volerla estendere per sempre, la nostra e quella delle persone a cui vogliamo bene. Stai ad ascoltare, e vedrai che lo capisci anche con la musica, senza scorciatoie.
Chi ha tempo per i singoli?
Mentre qui stiamo a giocare, Shaboozey ha eguagliato Mariah Carey e Luis Fonsi (tra gli altri) alla seconda posizione della canzone per più settimane consecutive al primo posto della Billboard Hot 100: 16 settimane di fila. E forse anche per questo ha pubblicato un nuovo singolo: è country, ma sembra un po’ Mumford & Sons. Non tremendo, e comunque lui continua ad avere stile e carisma - non si comprano, quelli. A parte questo, come dicevo, il tempo per i singoli è passato. Letteralmente, perché a parte la straordinaria Objetos Enterrados di Populous, ho avuto poco tempo per sentire tutte le uscite non contenute in un album. C’è una nuova canzone, eccellente, di FKA Twigs, una collaborazione di Shabaka Hutchings con billy woods altrettanto buona, un primo estratto da un progetto dei clipping. che il collettivo alt-rap ha definito “cyberpunk”, la prima canzone “ruock” di Ginevra, il primo pezzo “per tutti” del nostro amato Arssalendo, un pezzo divertente di Myss Keta (era da una po’ che non) e poi Brunori che è sempre un gran Brunori, specie quando fa quelle cose che quasi tutti si dimenticano nel pop italiano, tipo usare un accordo minore dove la “regola” direbbe di usarne uno maggiore (“Mi sembra di vedere noi, mi sembra ancora ieri”).
Tutto qua, nessuna lettura (ne ho linkate in cima, a ben vedere) perché ci sono un migliaio di nuove canzoni da sentire. Ma se proprio insisti: qualche giorno fa ho provato a spiegare su Fanpage cosa rende interessante il duetto tra Elodie e Tiziano Ferro (interessante non vuol dire bello o riuscito, però) e vedrai che tornano una serie di concetti esplorati parlando delle FLO.
Basta, se mi son perso qualcosa, magari recuperiamo la prossima settimana.
La vuoi sapere una cosa che mi ero dimenticato di sottolineare? Gli acclamati - giustamente - Magdalena Bay erano autori e produttori della migliore traccia del disco, running out of time.
Fai caso, però, all’accordo di Mi bemolle che ogni tanto diventa Mi bemolle minore, spaccando l’armonia e facendoti venire il mal di mare (in senso buono): piaccia o no lo stile, questa è composizione semplice ma geniale.
Quanti stili attraversa il disco di Chappell Roan? E quanto è brava a tirarli tutti verso di sé? Facci caso, non è più tempo per la concisione estetica.
Con le Digital Audio Workstation, i programmi con cui si registra oggi la musica, il tempo può essere regolato su un click in modo da non rallentare né accelerare mai. Ma già lo sapevi, dai.