Venti Ventiquattro dischi belli: pt. 2
24 dischi internazionali usciti nel 2024 (ma poi son tipo 180)
Quando ho elencato i 20 dischi italiani che ho preferito nel 2024, sono stato molto contento di ricevere qui e in giro dei complimenti per l’originalità delle scelte. Ecco, preparati, perché la lista dei miei dischi internazionali preferiti potrebbe assomigliare a qualche classifica che hai già letto, visto, sentito. Forse perché la musica consiste non solo nell’ascolto assoluto, ma nelle conversazioni e nella cultura che produce - ehi, è per questo che ho una newsletter - e quindi molti di questi 24 dischi hanno meritatamente attirato grosse attenzioni e (alcune decenti, altre terribili) opinioni. Ho scelto un numero relativamente ristretto, però, rispetto alle scelte che ho visto in giro di pubblicare liste da 50, 100, 200 titoli: come se si potesse davvero chiedere a un lettore di investire centinaia di ore nel recupero di qualcosa che magari si son persi per strada. Ogni cifra è arbitraria, la mia è una rima più che altro, ma vorrei continuare a pensare che questo giochino dei resoconti di fine anno sia comunque un esercizio utile a te che leggi, piuttosto che a me che scrivo. Specie se, come me, ascolti un po’ di tutto senza nessuna fedeltà a un genere soltanto - nessuno batte le selezioni di Bandcamp per genere, quindi nel caso ti rimando direttamente là, dove potrai scoprire qualcosa della tua nicchia preferita che quasi certamente ti sarà sfuggito.
Questa classifica conclude un lavoro di ascolto, selezione e commento che ha impiegato oltre 50mila minuti solo per la prima parte del lavoro, praticamente due mesi filati senza pausa. Se per caso deciderai di passare a un abbonamento a pagamento cliccando sul tasto qui sotto, te ne sarò grato. Se ti limiterai a commentare e condividere, sarò contento lo stesso. In questi 18 mesi di vita di Pucci siamo diventati un bel po’, e già questo mi riempie d’orgoglio. Ma se ti andasse anche di regalarmi un vinile nuovo (il costo dell’abbonamento annuale con lo sconto natalizio è quello, grosso modo), non sarò certo io a dirti di no.
Negli ultimi dodici mesi ho scritto profusamente di quasi tutti i titoli che vedrai di seguito: non metto i link per non appesantirti la lettura (anzi, preparati a fare un salto sul sito per leggere la lista completa). In compenso, nella playlist che ti lascio sotto c’è almeno una canzone da tutti e 180 gli album che ho passato in esame: facci un giro, sono certo che troverai qualcosa di tuo gradimento - qua per chi usa Apple Music. Se vuoi la lista completa, o anche - ma perché no - il file Excel con tutte le selezioni del 2024, fammi un fischio.
L’ultima cosa che aggiungo è che molto probabilmente riceverai un altro post prima della fine dell’anno. Se non ci sentiamo prima - come si dice in questi casi - buon anno nuovo e buona nuova musica da sentire insieme.
1. Charli XCX, brat
Il disco che ha definito l’anno, e basta. Il mondo si è accorto di aver sempre avuto sotto gli occhi una popstar, e questa popstar ci è arrivata senza compromettere per un secondo la sua idea di musica: chiassosa, con il pedale dell’acceleratore sempre premuto a tavoletta, decisamente “su di giri”, ma abbastanza lucida da rivelarci le ansie che arrivano con l’età adulta. Possiamo parlarne come il ritratto sbilenco ed eccitante di una party girl degli anni ‘20, come il ritorno dell’indie sleaze, come l’affermazione mainstream di un’idea di pop totalitario senza il quale non avremmo l’hyperpop, come la chiusura del cerchio di PC Music. Sarebbe tutto corretto, e comunque insufficiente per cogliere l’interezza di questo lavoro.
2. Father John Misty, Mahashmashana
Da cosa si giudica un bravo cantautore? Secondo me, dalla capacità di parlare delle situazioni più assurde che gli è capitato di vivere (o di immaginare, è lo stesso) tirandoti in mezzo, convincendoti che riguardano pure te. In questo senso, un cantautore è un imbonitore, e non c’è dubbio che Father John Misty lo sia sempre stato. Questa volta, ancora di più: dall’inizio gigantesco fino alla fine, portandoci a vedere la versione più massimalista e sontuosa della sua musica (con molti eccellenti aiuti), Tillman brilla per acume, sensibilità, intelligenza, gusto. E - guarda te - nel mezzo di un aneddoto che riguarda qualche famoso regista di Hollywood, ti sarà venuto il dubbio di aver capito qualcosa in più sul senso della vita. Perché alla fine tutto questo è una grande auto-illusione, e Misty ne conosce quasi tutti i trucchi.
3. Bill Ryder-Jones, Iechyd Da
Dall’inizio dell’anno a oggi questo disco non ha mai abbandonato la mia rotazione. La sua ingannevole semplicità è una delle ragioni di questa permanenza. La scrittura che sembra sempre sul punto di sbracare e invece va sempre a segno è un’altra. Questo sta con me.
4. Cindy Lee, Diamond Jubilee
Un disco che è sembrato arrivato dal nulla finché Pitchfork non l’ha adottato prima di (quasi) tutti, dimostrando che le opinioni sulla musica hanno ancora un peso - Cindy Lee ha dovuto cancellare l’ultima parte del tour perché le date, originariamente organizzate in posti molto piccoli, erano diventate troppo caotiche. Come ho scritto nella mia recensione, è un disco che ha il pregio di farti apprezzare i luoghi in cui ti porta un semplice canzone, che tiene insieme lisergico e sincero in modo struggente, che ti fa riscoprire la forza della memoria in un’epoca di nostalgie inflazionate, mercificate, politicizzate. Incantevole, strappacuore, ipnotico.
5. Mount Eerie, Night Palace
Ci sono dischi vasti e dischi profondi, dischi che guardano lontano e dischi che osservano attentamente. Cioè, fuor di metafore, ci sono dischi pieni di spunti assorbiti in una sola visione stilistica, e dischi che risultano da un lavoro di sviluppo dettagliato di una scrittura e di un’estetica molto precisa. L’ultimo album di Phil Elverum, secondo me, è piaciuto così tanto perché riesce a contemplare entrambe le aspirazioni, risultando forse un po’ imponente per chi preferisce ascolti concisi, ma mai caotico e dispersivo: è aspro e dolce, frastornante e sussurrato, vicinissimo e lontano, lungo e sintetico, sveglio e ipnotizzato, morbido e distorto. Dentro il suo contorto e dinoccolato percorso, fatto di tante tracce brevi che pure non sembrano troncate a metà, Night Palace si chiede in continuazione “perché io? perché ora? perché questo?”, le domande fondamentali per qualsiasi esistenzialismo degno di questo nome, e ha il coraggio di trascinarsi sulle spalle di questi interrogativi i temi che riguardano tutti, prima o poi: lutto, privilegio, responsabilità; con la certezza che nessuno sia completamente innocente, e che tutti debbano impegnarsi quantomeno a cercare le risposte, a fare quello sforzo. Un disco che ti guarda dentro.
6. Jessica Pratt, Here In The Pitch
Non so te, ma ultimamente i miei sogni sono sempre più vividi e precisi. Forse è anche per questa ragione che trovo una sintonia incredibile con questo disco, che suona come un sogno a orecchie aperte. Ogni cosa sembra leggermente fuori asse rispetto alla nostra realtà - il tempo non esattamente isometrico; le note mai precisamente al loro posto; i colori virati; il contrasto sballato - ma una volta che aggiusti le manopole del tuo cervello, ti risulta chiaro come il giorno.
7. Mabe Fratti, Sentir Que No Sabes
Complesso come un ingranaggio che, osservato da vicino sembra sul punto di fermarsi, ma da lontano fa girare canzoni soavi e fluide, il disco della violoncellista e cantante guatemalteca merita tutta l’affermazione critica universale che è arrivata nella sua direzione.
8. English Teacher, This Could Be Texas
Canzoni sull’orlo di una crisi di nervi, cantate come se ne andasse della vita di Lily Fontaine, prodotte e mixate dalla solita eccelsa Marta Salogni con una cura pazzesca, dando personalità individuale a ogni dettaglio strumentale. Anche per via di ciò dentro questo album è come se fossero concentrati tre-quattro dischi, con ciascuna traccia che suona differente dall’altra. E a sua volta, ogni traccia è un microcosmo, come se ripetersi fosse un peccato capitale. Post-punk che diventa prog-folk, con la grazia necessaria per non farti pesare ogni singola curva a gomito che viene presa melodicamente o ritmicamente: per fare tutto ciò serve grazia, il che è singolare per una musica tanto spigolosa. Stupefacente. (E se ti garba, prova anche Big Swimmer dei King Hannah, che manca la top 24 per un soffio).
9. MJ Lenderman, Manning Fireworks
Americana ma con lo scazzo e una romantica disillusione. Un disco dove si addensano alcune delle mie versioni preferite di quella tradizione che da Neil Young arriva ai Dinosaur Jr., vale a dire chitarre grandi per grandi cuori (infranti), per sfigati con la faccia buffa che si comprano la casa al mare a Buffalo, NY (dove fa un freddo cane), per rispondere alla domanda “quante strade dovrà percorrere un uomo per accorgersi che è uno stronzo”. Anticipato nel 2023 da una delle canzoni più belle degli ultimi anni (Rudolph), questo disco culmina con non una ma due o forse tre delle canzoni più belle del 2024 (la title-track, Wristwatch e She’s Leaving You). Sontuoso nella sua piccolezza, strapieno nel suo minimalismo, un miracolo che si avvera ogni volta che lo metti su - e capita spesso, perché è proprio quel genere di disco sul quale è giusto fare riferimento.
10. Friko, Where we’ve been, where we go from here
Se mai dovessimo far rinascere l’indie rock anni Zero, per piacere, facciamolo ricominciare da questo straordinario debutto del duo chicagoano Friko, e non da qualche strano animale dell’hype tipo The Dare. Un disco chamber pop strapieno di melodie, arrangiato con varietà fra momenti deflagranti e delicatezze, che deve molto al repertorio più chitarristico dei Radiohead, e del quale non sarò mai sazio. Strepitoso.
11. Nilüfer Yanya, My Method Actor
Per me il disco migliore di una breve ma già eccellente carriera. Una riflessione sull’autenticità che risulta particolarmente rilevante in un’epoca e in un’industria che si riempiono la bocca di questa parola, per venderti compulsivamente l’ultima versione di qualcosa che non ti serve. E proprio per questa urgenza universale, forse, la musica dell’inglese abbraccia anche tutte le sue asperità e i suoi imprevisti, ma anche dei momenti di grande tenerezza (Binding) o di impassibilità meditativa (Call It Love): questa sì che è scrittura vulnerabile, mica le sbrodolate autocompiaciute che ci vengono vendute come tale. O forse siamo cascati anche noi ascoltatori nel trucco dell’autenticità? Non importa, perché tutto suona benissimo, da una voce che già da sola basterebbe all’intricato, ossessivo, tappeto strumentale realizzato per la prima volta in tandem totale con Wilma Archer, un musicista, autore e produttore che a quanto ne so ha toccato solo musica splendida (Celeste, Sudan Archives e i precedenti due lavori di Yanya). Like I Say (I runaway) è per me nella top 10 delle canzoni migliori dell’anno, in generale.
12. Magdalena Bay, Imaginal Disk
Caleidoscopico, talmente denso di riferimenti e stili che trasforma il suo coacervo di spunti in una struttura cristallina inscalfibile, un diamante di idee e suoni: e negli spazi liberi che accostano una progressione R&B con un sound design psych-ambient, un groove disco-funk con un’evoluzione prog, passa la luce, e si vede. Così, tra le trasparenze di questo racconto di vampiri innamorati, insetti che fanno la muta e robot incazzati scorgi un’interiorità tormentata ed esplosiva, tutti gli struggimenti e le infatuazioni che riempiono di sentimento ogni giorno delle nostre strambe vite. Un disco straordinario, esuberante, coinvolgente, elegantissimo, sui cui molteplici livelli di lettura psicanalitici, socio-economici, antropologici potremmo spendere decenni di ricerca. Oppure, possiamo lasciarlo andare e farci trasportare dal duo americano nel loro mondo di fantasia che somiglia tanto alla nostra vita virtuale, fuori dal tempo e dallo spazio eppure ancora appesa alla paura di morire soli e incompresi.
13. Godspeed You! Black Emperor, “NO TITLE AS OF 13 FEBRUARY 28,340 DEAD”
Erano anni che non sentivo un disco così incisivo e potente del collettivo canadese. Ogni volta che ho pensato che il mondo fosse al collasso, ho sentito i feedback poderosi di queste chitarre riverberate. Dentro il rumore di caccia bombardieri e disastri climatici sbucano barlumi di umanità, una voglia di vivere a dispetto dell’orrore della guerra che galoppa in questi crescendo strazianti ed eroici. Enorme.
14. Mannequin Pussy, I Got Heaven
In questa posizione ero tentato dal mettere All Hell dei Los Campesinos!, disco che ho adorato ma che per me ha avuto un quoziente di ascolti ripetuti molto più basso rispetto a questo lavoro, che definire come l’album della maturità della band di Philadelphia sembra riduttivo. Perché è anche soprattutto un ascolto spassoso, commovente, rabbioso, portato a spasso dalla voce trasformista di Marisa Dabice.
15. Astrid Sonne, Great Doubt
Tra i dischi che mi hanno inseguito di più quest’anno, il primo LP di questa musicista, compositrice, produttrice, cantante danese è stato come un enigma che mi ha tormentato e coccolato. Labirintico, meccanico e affumicato come la voce di Sonne, che spilla dolcezza da queste forme geometriche create con una combinazione di registrazioni ambientali, echi di capannoni, drum machine intontite, con l’aiuto della sua viola e di un’interpolazione geniale di Mariah Carey (Give My All). Troppo affascinante per lasciarlo nel 2024.
16. Clairo, Charm
Il bedroom pop fatto bene, con gli arrangiamenti deliziosi di Leon Michels. Il primo disco della cantautrice americana che - secondo me - merita l’hype che l’ha circondata da quando è comparsa sulle scene 5-6 anni fa.
17. Empress Of, For Your Consideration
Nell’anno che ha incoronato nuovamente le pop-girls e ha dato loro l’arduo compito di ricordare a tutti che la musica può essere divertente e farti muovere le budella, alcuni dischi che ho atteso con ansia (Orquideas di Kali Uchis, Radical Optimism di Dua Lipa, Hit Me Hard and Soft di Billie Eilish) sono riusciti a convincermi solo a metà. Lorely Rodriguez, invece, mi sembra esserci riuscita meglio di altre colleghe. Non che sia una gara, sia chiaro. Ma rimettere su questo disco mi ha sempre fatto piacere, permettendomi di assorbire con piacere le sue aspirazioni a creare un coacervo di house balearico-californiana, latin-pop infuso di R&B, breakbeat ossuta. Il tutto passandoci sotto il tavolo alcune delle sue ballate più incendiarie e vulnerabili, equilibrate la lezione più universale di tutte: “il ritmo mi cura”.
18. High Vis, Guided Tour
Post-punk - lo sappiamo bene - non significa nulla. A meno che non abbia la scusa della consecutio temporale (post) per rinnovare l’idea che si possa fare musica priva di mentori e padroni, inconciliabile con le proprie aspettative, maleducata (punk). Questo disco degli High Vis fa esattamente questo lavoro, tenendo insieme hardcore all’inglese e groove psycho-beat, tastiere goticheggianti e trip madchesteriani, street punk, chitarroni shoegaze e purissima critica sociale. Il disco del 2022 faceva già questo lavoro egregiamente, ma Guided Tour è un salto in alto, anche grazie al concept solidissimo: se tutta la cultura e l’intrattenimento converge verso l’escapismo (nello spazio, nel tempo, nel multiverso), la band londinese ti promette un tour guidato dello schifo in mezzo al quale viviamo. E rende questo viaggio abominevole un’esperienza travolgente.
19. JPEGMAFIA, I LAY DOWN MY LIFE FOR YOU
Il 2024 è stato un altro anno non pazzesco per gli album rap, secondo me: GNX di Kendrick Lamar è un gran disco, ma non mi sento proprio di includerlo tra i miei 24 album dell’anno (ma non preoccuparti, ne troverai traccia nella playlist); Chromakopia è ottimo, ma mettere in classifica Tyler mi sembra superfluo (anche lui sarà in playlist). Per me Peggy, Erick The Architect, Heems, ScHoolboy Q e pochi altri hanno solleticato le mie aspettative di una musica che - per come la vedo io - deve mescolare tutto, innescare reazioni, stupirmi, istigarmi. Questo, che potrebbe anche essere “il primo disco metal di JPEGMAFIA” (con una copertina curiosamente molto simile a quella dei Knocked Loose, anche loro artefici di un gran disco nel 2024), è riuscito a svegliarmi dal torpore di tanta altra roba hip-hop accomodata nelle sue nicchie pregiatissime, incapace di campionare con la stessa genialità, in crisi d’identità. E il fatto che ci siano anche canzoni morbidose (ma crudissime) come either on or off the drugs dimostra l’ampiezza di un artista che è sempre meno una mascotte degli estremisti del rap e sempre più una figura imponente.
20. Adrianne Lenker, Bright Future
Una coltellata faceva meno male.
21. Kim Gordon, The Collective
In filigrana all’exploit globale della trap abbiamo voluto vedere spesso una critica inconsapevole al capitalismo, alle politiche identitarie, agli ultimi brandelli di decenza che società occidentali incredibilmente ipocrite sventolano davanti alle sue contraddizioni. Per poi ritrovarci, qualche volta, a lasciar passare anche tanta pochezza artistica. Il secondo album da solista dell’ex Sonic Youth tira fuori questi temi senza alcuna filigrana, li mette tutti sul piatto. Sensuale e raccapricciante come un body horror, a tratti seriamente ingannevole se si stia parlando di sesso o di omicidio (Trophies) The Collective è la cattiva coscienza del nostro tempo messa a nudo, un mostro che fa accapponare la pelle al primo ascolto e che diventa accattivante in modo perverso quando accetti di partecipare al gioco. I Suicide featuring Playboi Carti. Estremo e magnetico.
22. Cassandra Jenkins, My Light, My Destroyer
Non è vero che i dischi che ci piacciono li scopriamo al primo ascolto. Con questo disco ho insistito, finché non ci sono entrato. Non che sia un disco complicato: sono canzoni struggenti e piuttosto intrippate che parlano di solitudine e innamoramento, ingiustizie collettive e frustrazioni personali. Ma forse non siamo sempre pronti per stare a sentire anche le più comuni osservazioni. E invece bisogna lottare con la propria attenzione: alla fine, a furia di darle retta, ho capito che aveva scritto canzoni bellissime, e sono contento di aver insistito (e in questa categoria potrei anche citare Tigers Blood di Waxahatchee o un piccola perla come No dei Tomato Flower).
23. Laura Marling, Patterns In Repeat
Se mi chiederanno mai di stilare una classifica sui dischi più grondanti amore, purissimo e viscerale amore, mi ricorderò di citare questo disco che Laura Marling ha letteralmente registrato a due passi da sua figlia (l’apertura Child Of Mine è inframezzata dai gemiti della bimba e ha quella magia dell’istante catturato per sempre, che mi fa amare così profondamente la musica incisa). Un gioiello assoluto che ha il buon gusto di non cedere mai allo stucchevole. Saper concentrare un singolo sentimento dentro un disco, in questa maniera così esplicita e totalizzante, è una gran cosa: ho trovato qualcosa di simile dentro Clouds In The Sky They Will Always Be There For Me dei Porridge Radio, che è la quintessenza della stanchezza fisica, sentimentale, spirituale, e per questo mimetismo assoluto è ugualmente affascinante ed è quasi finito in questa lista.
24. Beth Gibbons, Lives Outgrown
Se devo scegliere un solo disco sul senso della vita che sembra uscire da una cattedrale sconsacrata, fra questo e Wild God di Nick Cave & The Bad Seeds, scelgo questo. Fosse anche solo per certe trovate di arrangiamento, con sezioni d’archi scritte in modo dinamico, percussioni che creano false partenze e falsi approdi, pieno di momenti imprevisti e inversioni a U, che rendono l’ascolto di ogni traccia un’avventura di conoscenza.
Menzioni speciali
Come? Dopo tutta questa lenzuolata che è certamente stata troncata dal tuo servizio di posta, ho ancora dei titoli da aggiungere? Sì, scusa. Voglio citare un album che è arrivato tardi nella mia rotazione, Two Star & The Dream Police di Mk.gee, segnalatomi da Edoardo: non so se sia il salvatore e redentore della “musica con le chitarre” presso la generazione Z e Alpha, ma è certamente un bell’ascolto se vuoi spostare i paradigmi di quello che senti (mi viene da dire che thaSup dovrebbe fare un album così). L’unica altra menzione speciale che voglio inserire qui è Right Place, Wrong Person di RM, cioè uno dei componenti della band k-pop più grande di sempre, i BTS, che al momento sono ancora in pausa: il rap di RM discende da un modo di intendere le produzioni hip-hop che deve tanto a Tyler e al funk marcio dei vecchi Neptunes, ma contiene e coltiva il suono di altre scene, altri luoghi, altre esperienze, una Seoul sotterranea che non capita facilmente di incontrare, e che qui viene tenuta insieme con una sequenza di tracce sopraffina, un uso moderato dei featuring (Little Simz!) e tanto gusto. Il futuro del k-pop è qui? Vedremo. E già che ci sono, un’ultima menzione per l’album collaborativo di due band coreane, Hyukoh e Sunset Rollercoaster: il disco si intitola AAA, e scommetto che sarà assente da molte liste di fine anno, ma vale almeno 5 o 6 ascolti. Mentre l’ultima, giuro, ultimissima menzione è per Heavy Metal di Cameron Winter, frontman dei Geese che tanto mi piacciono: un capolavoro di eclettismo che, se fosse uscito un mese prima anziché il 6 dicembre, avrebbe avuto quasi certamente un posto qua sopra.
Ci avrei messo dentro anche l’ultimo dei The National. Sempre che tu non abbia intenzione di fare una classifica a parte dei live.
Super classifica! Nei primi 10 me abbiamo 3 in comune, i Friko sono piaciuti parecchio anche a me, se ne è parlato poco o nulla. Alcuni li devo recuperare proprio, grazie per la segnalazione.